Intervista a Flavio Berto – CEO Berto Industria Tessile
BERTO INDUSTRIA TESSILE – Fondata nel 1887, con sede centrale a Bovolenta, in provincia di Padova, Berto è tra le aziende italiane leader nella produzione di tessuti in denim e tessuti in cotone per abbigliamento e arredamento.
Quali sono i passaggi più importanti nella storia dell’azienda da lei guidata e quali sono le caratteristiche e i punti di forza che vi distinguono dai competitor?
L’azienda nasce nel 1887 come tessitura specializzata nella creazione di vele per le barche di Chioggia e Venezia, e si evolve poi negli anni passando attraverso i comparti abbigliamento da lavoro, tessuti per la casa e l’arredamento e camiceria. Fino ad arrivare agli anni ’60 del Novecento, quando entriamo nel mondo del Denim, che è ancora oggi il nostro core business. Siamo stati e siamo ancora oggi un’azienda molto dinamica, e ci consideriamo degli artigiani del Denim. La nostra mission è quella di creare prodotti al 100% Made in Italy con un atteggiamento propositivo e con una forte attenzione alla qualità. Il nostro punto di forza sta nell’impegno e nella capacità di creare delle linee guida nell’immaginazione del cliente, di customizzare il prodotto e di offrire un’assistenza di alto livello articolata lungo tre direttrici:
a) il Servizio (fornire il tessuto nel minor tempo possibile)
b) la Flessibilità dei cicli di produzione (la sfida è riuscire a ingegnerizzare bene la collezione ed essere in grado di servire sempre il cliente, anche quando è piccolo e chiede metrature esigue)
c) la continua Evoluzione (cerchiamo sempre di proporre delle novità e non scartiamo nessun possibile cliente e nessun nuovo mercato)
Lei appartiene alla quarta generazione di una famiglia di imprenditori. Attraverso quale percorso è arrivato a sviluppare le competenze e le capacità per guidare con successo l’azienda di famiglia in un frangente non facile per l’economia italiana?
Sono stato un pessimo studente alle scuole superiori, ma anche quegli anni e quelle esperienze mi sono servite. Poi mio padre mi ha detto: ‘o fai l’università in cinque anni, o se devi iscriverti per stare lì dieci anni a vivacchiare allora parti direttamente con l’ “Università Berto”. Io ho scelto questa seconda opzione e ho fatto l’operaio per cinque anni, in tutte le funzioni aziendali (dalla carderia alla filatura al finissaggio). Nel frattempo mi sono riservato una parentesi di tre mesi negli Stati Uniti, seguendo un corso che mi ha permesso di qualificarmi come classificatore di cotone. Poi ho portato l’azienda alla certificazione ISO per conoscerne l’organizzazione, sono entrato nell’area commerciale nei primi anni Duemila, e a quel punto – quando avevo ventisette anni – è arrivata la svolta: mio padre ha deciso di partire per il Bangladesh, ha aperto là un’azienda e ancora oggi vive in Asia e prosegue le sue attività imprenditoriali. Avevo – ripeto – soltanto ventisette anni. Mio padre mi ha convocato un giorno e all’improvviso mi ha detto: “è arrivato il tuo turno, arrangiati, ora gestisci tu la Berto”. Ha lasciato la Manifattura Corona (l’altra azienda di famiglia) a mia sorella e Berto Industria Tessile è finita nelle mie mani. Io mi sono buttato, ho seguito un master universitario a Vicenza e uno in Bocconi e ho cercato di imparare a fare l’imprenditore. Ho continuato naturalmente a sentire mio padre e a discutere con lui sui problemi dell’azienda, siamo rimasti in ottimi rapporti, ma è chiaro che le mie responsabilità sono aumentate enormemente. Ancora oggi cero di dare il massimo e seguo corsi di formazione per migliorarmi e tenermi aggiornato. Faccio anche molto sport, e dallo sport credo di trarre dei benefici importanti in termini psicologici e caratteriali.
Con il progetto Berto for Young Talents date la possibilità ai nuovi talenti di portare avanti idee e proposte. In cosa consiste il progetto e quali soddisfazioni vi sta dando?
Il progetto Berto for Young Talents è una scommessa. Il mondo oggi cambia alla velocità della luce e la storia ci insegna che gli interlocutori e gli esempi di successo mutano continuamente. Eppure nel mondo tessile e dell’abbigliamento le barriere in entrata sono molto forti, ed è chiaro che una ragazza o un ragazzo che hanno delle buone idee nel 99% dei casi non hanno la possibilità di portarle avanti e non possono certo comprare migliaia di metri di tessuto e partire con un’attività imprenditoriale. Noi aiutiamo i giovani che hanno delle buone idee a entrare nel mondo dell’abbigliamento, li aiutiamo fornendo la materia prima (i tessuti), aiutandoli a trovare fornitori della filiera e pubblicizzando le loro creazioni nelle fiere di settore e sui social network.
In un mondo fortemente globalizzato in cui è sempre più accentuata la tendenza alla delocalizzazione industriale, Berto resta al 100% Made in Italy e mantiene intatto il legame con il territorio di produzione – Padova. Qual è il suo giudizio su chi ha scelto invece di spostare la produzione al di fuori dell’Italia? È la politica che ha responsabilità nel rendere sempre meno attrattivo il nostro Paese per gli investimenti o sono gli imprenditori che con le loro (legittime) scelte stanno indebolendo il sistema italiano? Tra chi decide di investire altrove certamente c’è chi agisce in nome di una scelta di vita – come suo padre Giuseppe Berto, che ha aperto un’azienda tessile in Bangladesh, vive lì da vent’anni e collabora con i missionari Saveriani. Altri invece sono mossi esclusivamente da ragioni di business. Qual è la sua opinione in proposito? Quali potrebbero essere le leve per tornare a crescere e ad attrarre investimenti in Italia?
Chi pensa che il problema dell’Italia siano gli imprenditori “avidi” o che “vogliono speculare” non ha capito molto e non meriterebbe nemmeno una risposta. Oggi in Italia è diventato molto duro portare avanti un’azienda manifatturiera, gli imprenditori italiani sono paragonabili a degli atleti che si trovano a dover correre i 100 metri con una zavorra superiore al loro peso corporeo attaccata ai piedi. È praticamente impossibile che possano vincere contro altri atleti che non hanno questa zavorra da portare. Gli imprenditori italiani che resistono mostrano grandissime doti di tenacia e devono inventarsi l’impossibile per stare in piedi. Ciò detto, io vado avanti e continuerò sicuramente a tenere la produzione in Italia, nel nostro stabilimento di Bovolenta, in provincia di Padova. La mia è una sfida ma c’è anche una considerazione razionale – e non solo delle valutazioni emotive – a convincermi a rimanere in Italia, una considerazione basata su 2 pilastri fondamentali. Il primo poggia sulla convinzione che se vuoi offrire dei prodotti e dei servizi di qualità devi essere vicino al tuo cliente. Mio padre segue l’Asia dal Bangladesh, io seguo l’Europa dall’Italia, e se mai deciderò – per esempio – di puntare anche sul mercato americano, dovremmo porci la sfida di produrre in loco. So benissimo che oggi paga di più importare a basso prezzo e vendere con grande ricarico piuttosto che produrre direttamente in Italia, ma se proponi prodotti di alta qualità e customizzati come i nostri devi lavorare vicino al cliente. Il secondo pilastro è basato sulle tempistiche di mercato ed i costi di trasporto e stock. Se ti arriva in ritardo la merce che importi ti saltano le collezioni, non ti compra più nessuno con un rischio di obsolescenza altissimo, la moda cambia sempre più rapidamente, e mci chiedo: può permettersi questi costi? Se vuoi vendere prodotti di qualità e vuoi vendere sul mercato europeo devi essere in Europa. Personalmente, come detto, non credo nella fine del manifatturiero in Europa, e in particolar modo in Italia, ma perché si possa tornare a crescere velocemente la politica dovrebbe intervenire efficacemente almeno su due fronti:
a) Burocrazia (va evidentemente snellita, migliorata e semplificata a 360 gradi, oggi rappresenta un costo insostenibile per le imprese, già duramente provate da una pressione fiscale eccessiva)
b) Globalizzazione e Regole (le condizioni e le norme devono essere uniformate il più possibile; se pago dazi per esportare in Cina o negli Stati Uniti non può essere che le imprese cinesi o americane non paghino in maniera analoga per esportare in Europa; se per esportare in Cina devo sottopormi a livello doganale a regole severissime, non può essere poi che le imprese cinesi vengano lasciate libere di esportare in Europa senza queste regole, e magari proponendo prodotti creati facendo lavorare bambini o inquinando oltre ogni limite; se le regole non sono uguali per tutti diventa difficile competere)
Aggiungo infine una considerazione personale che riguarda l’istruzione e la visione del mondo. È da almeno vent’anni che ci dicono (in Italia e in Europa) che il manufatturiero è veleno e che il futuro è nei servizi. Il risultato è che tutti vogliono vivere nel mondo dei servizi (consulenti, venditori, assicuratori, ecc.) e nessuno vuole più lavorare nelle fabbriche. Ma quanto lavoro diamo noi che produciamo tessuti e quanto lavoro danno certe startup che operano nel marketing o nella consulenza? Nonostante la crisi ancora oggi noi diamo da mangiare a diverse centinaia di famiglie, mentre molte altre realtà “al passo con i tempi” danno da mangiare quando va bene a tre o quattro persone. È questo il futuro che vogliamo? Un mondo con qualche consulente e venditori e con milioni di disoccupati? Io vorrei che riscoprissimo l’orgoglio delle aziende e delle fabbriche vere che portano avanti il Made in Italy e che nonostante le difficoltà ancora oggi tengono in piedi il nostro Paese.
Come si sono evolute negli ultimi anni le collezioni? Quali sono le caratteristiche delle nuove collezioni 2019 e quali potrebbero essere le novità e le tendenze nei prossimi anni?
È difficile individuare una tendenza generale. Ci sono però almeno tre caratteristiche importanti che sono oggi alla base dei nostri prodotti e che sono diventate sempre più rilevanti negli ultimi anni:
a) la Sostenibilità (come viene fatto il prodotto e quanto sono sostenibili la produzione la filiera in termini di gestione delle risorse umane e in termini di impatto ambientale)
b) il Comfort (oggi per un capo d’abbigliamento è più importante dell’immagine, fino a qualche anno fa era vero il contrario)
c) lo Stile e lo Storytelling (da semplici produttori di tessuto stiamo diventando oggi anche dei promotori di stile; dobbiamo raccontare storie ed emozionare per vendere i nostri prodotti, avere un tessuto di qualità non basta più; dobbiamo confrontarci con i clienti ma anche riuscire a indovinare in anticipo quali saranno i nuovi gusti e le nuove tendenze, dobbiamo essere bravi ad anticipare a suggerire).
Aggiungo una considerazione finale: la globalizzazione ha senso se si concilia con la localizzazione, con la qualità, con la varietà e con la personalizzazione, altrimenti non ha senso. Oggi iniziamo già a vederlo nello stile di vita di molte persone: si sta passando dai mass market ai prodotti personalizzati. Basti pensare all’alimentare, dove la GDO non cresce più come prima mentre i prodotti locali avanzano con aumenti a doppia cifra, o nell’abbigliamento stesso, dove si sta riscoprendo il mondo del “su misura”. Come coniugare una storia di globalizzazione che porta inevitabilmente alla massificazione dell’offerta (poche cose uguali distribuite ovunque) con richieste sempre più personalizzate? Per noi la risposta è nella localizzazione!