Il Canton Ticino. Crisi e nuove opportunità nella Svizzera italiana

Canton Ticino. Crisi e nuove opportunità

Intervista a Stefano Novati, Consulente, Revisore contabile e Dottore commercialista – Partner fiduciario Revisorga SA Chiasso

A cura di Luigi Torriani

Quando si parla di economia ticinese si parla innanzitutto di banche. Una realtà che la crisi globale e la fine del segreto bancario hanno fortemente ridimensionato, determinando un calo in termini di gettito fiscale e in termini occupazionali. Quanto ha pesato la Voluntary Disclosure sull’economia del Canton Ticino?

Dici bene quando parli di economia “ticinese”. C’è un pregiudizio diffuso che riduce l’intera Confederazione Elvetica a banche, cioccolato e orologi. In realtà a livello federale il comparto bancario (e finanziario più in generale) pesa meno di quello industriale, e questo è il vero motivo per cui il governo di Berna ha deciso di rispondere più che positivamente alle richieste europee in tema di segreto bancario e di evasione fiscale. Il Canton Ticino invece è indubbiamente molto “finanziarizzato”, e nel Ticino tra banche, gestori patrimoniali e fiduciarie finanziarie si arriva a ben più del 50% dell’economia cantonale.

L’impatto con la Voluntary Disclosure italiana l’ho vissuto in prima persona, avendo fatto parte di una corposa task-force di una decina di Dottori Commercialisti dell’Ordine di Milano, Monza Brianza e Como e di tre fiduciarie ticinesi con un totale di 372 pratiche di rimpatrio dei capitali già svolte e portate a termine. A mio avviso la Voluntary Disclosure sta pesando relativamente poco sull’economia del Canton Ticino, anche se mi rendo conto che una considerazione di questo genere necessiterebbe almeno di una decina d’anni di osservazione. In ogni caso mi spiego: in un primo momento anche tra la nostra clientela giravano voci su una probabile ecatombe, un’Hiroshima (mi si perdoni il paragone) dell’economia ticinese. I segnali che portavano in questa direzione erano davvero tanti: la clientela italiana era su tutte le furie per il blocco forzato (da alcuni legali e accademici ticinesi definito “illegale” con tanto di denuncia alla procura federale) dei propri conti correnti ad opera delle banche ticinesi; cadeva la motivazione principe della detenzione all’estero di conti bancari, l’occultamento dei capitali agli occhi del fisco italiano; le prime voci circolanti tra gli addetti ai lavori, che l’Agenzia delle Entrate avrebbe concesso un ulteriore sconto per chi rimpatriava fisicamente i capitali; da ultimo, alcuni istituti finanziari italiani che promettevano, ai “volontari” del rimpatrio di capitali, bonus e rendimenti superiori per chi avesse deciso di riportare in Italia i propri soldi presso di loro. Da tutto questo, la paura che molte banche licenziassero in massa e che molti gestori patrimoniali chiudessero, era davvero alta. I fatti successivi all’apertura della procedura hanno rivelato invece un andamento ben diverso da quello che si prospettava. Certamente l’emorragia di clientela c’è stata, sicuramente molte banche hanno ridotto il personale e molte fiduciarie finanziarie si sono riconvertite o hanno chiuso i battenti. Ma è stato un flusso contenuto, ben inferiore rispetto alle attese. Le motivazioni? Quelle che hanno fatto più scalpore erano le notizie da oltre confine degli scandali della Banca Etruria e dei provvedimenti nel settore bancario ad opera del Governo Italiano su richiesta europea (il c.d. “bail-in”). Successivamente si è iniziato a mormorare sulla scarsa sicurezza del settore bancario italiano, i titoli spazzatura in pancia a Unicredit e soprattutto a Deutsche Bank, ulteriori scandali venuti a galla tra Monte dei Paschi di Siena e Banca Popolare di Vicenza; tutto ciò ha portato a un capovolgimento copernicano nella mentalità del contribuente italiano che deteneva soldi presso i forzieri elvetici: fare subito pace con il consulente della banca ticinese e cercare nuove condizioni di gestione trasparente del proprio patrimonio ormai regolarizzato. L’antica e solida tradizione dei banchieri svizzeri ha pertanto avuto la meglio e ha tenuto parecchio. Gordon Gekko, celebre protagonista del film “Wall Street”, ebbe a dire nel sequel di essere uno all’antica proprio perché si fidava solo dei banchieri di Zurigo.

La Voluntary Disclosure e analoghi accordi sottoscritti con altri Paesi hanno avuto però anche una conseguenza potenzialmente positiva: l’uscita della Svizzera dalla black-list dei paradisi fiscali. Questo nuovo status offre alla piazza finanziaria di Lugano e alla realtà ticinese nuove opportunità? Che cosa “bolle in pentola” nelle banche del Canton Ticino? A quale riconversione si pensa?

Distinguiamo tra Black-list bancaria e black-list commerciale. Quest’ultima fuoriuscita, senza più l’obbligo per le società italiane di comunicare le operazioni con la Svizzera né l’obbligo di segnalazione in dichiarazione dei costi sostenuti con imprese elvetiche, è passata un po’ sottovoce, forse perché riguarda più le aziende che le banche, ma per il Canton Ticino è e sarà, a partire dal 2017, una gran bella boccata d’aria fresca. Per quanto riguarda la black-list finanziaria, invece, c’è sicuramente stata una pulizia salutare, ma più che nella riconversione il vero scatto richiesto è nell’aumento della professionalità nella gestione dei patrimoni: protezione e rendimento. Su queste due parole il Canton Ticino si gioca il prossimo futuro.

Il Canton Ticino rappresenta da sempre una grande opportunità in termini occupazionali per gli italiani che abitano nelle zone di confine, ma oggi la situazione dei frontalieri (circa 62.000 frontalieri italiani che lavorano in Ticino) appare sempre più incerta. Al referendum “Prima i nostri” del 24 settembre 2016 il 58% dei ticinesi ha votato per dare la precedenza ai residenti nell’assegnazione dei posti di lavoro. In Svizzera le leggi in materia di lavoro sono di competenza del governo centrale e non dei Cantoni, per cui nell’immediato l’esito referendario non cambia nulla sul piano pratico, ma il messaggio politico della consultazione è molto chiaro. Per gli italiani che vogliono lavorare nel Canton Ticino cambierà qualcosa in concreto nei prossimi anni?

Il messaggio è chiaro, su questo ti do ragione, ma siamo punto e a capo dopo il referendum, lo vedo solo come uno spreco di tempo. La Svizzera, così come l’Italia, l’Europa e più in generale il mondo Occidentale, hanno scelto la via del liberismo nell’economia di mercato. Liberismo senza alcun freno per quanto riguarda la mobilità delle persone e l’accesso al mondo del lavoro nei singoli stati o regioni. Qui mi viene da ripensare al genio di Maurice Allais, economista saggio e purtroppo rimasto inascoltato, ma magari ci saranno altre occasioni di riparlarne. Faccio un esempio concreto: almeno una volta al mese arriva da me l’imprenditore ticinese DOCG che mi chiede la simulazione del costo di un dipendente perché “sa Signor Novati, la crisi si sente anche qua nel bellinzonese, dobbiamo risparmiare, tagliare i costi, di più non posso pagare il personale, non possiamo far altro che assumere un frontaliere a 2’000/2’500 chf netti al mese”. Frontaliere che, a quella cifra, oltre a far salti di gioia, è ben disposto a farsi 100 km di auto, file interminabili incluse, tutti i santi giorni, ben conoscendo il paragone salariale con amici e conoscenti che lavorano su suolo italico. Il vero cambiamento, pertanto, a breve, non riguarderà la chiusura delle frontiere o altre questioni di mobilità simili, mi sembra molto improbabile; il vero cambiamento avverrà a partire dal 2018 quando la quarantennale esperienza di frontalierato (accordi bilaterali del 1974) sarà archiviata e pensionata lasciando spazio al nuovo accordo che prevede una doppia tassazione. Sarà ancora così conveniente per il lavoratore frontaliere di Erba o di Como, che paga ad oggi un’imposta alla fonte che si aggira tra il 4 e il 9%, farsi tutti quei chilometri in auto per versare poi un conguaglio al fisco italiano sul 30% del proprio stipendio con le aliquote progressive IRPEF italiane che arrivano a toccare punte del 38% e del 43%? Ai posteri l’ardua sentenza.

Il sistema fiscale svizzero è tra i più “leggeri” del mondo, e nel Canton Ticino la pressione fiscale sull’utile è di norma di poco superiore al 20%, contro il 43% e oltre dell’Italia. Lo stipendio medio in Ticino è però di circa 4.000 franchi netti, un dato praticamente doppio rispetto a quello dell’Italia (lo stipendio netto mensile degli italiani è in media di 1.500 euro). L’imprenditore dunque risparmia sulle tasse ma deve pagare salari più alti. Ha senso oggi per gli imprenditori italiani aprire sedi nella Svizzera italiana?

Sgombriamo subito dal tavolo ogni dubbio in merito: l’imprenditore che apre una realtà in Svizzera lo fa o perché vuole penetrare il mercato elvetico o perché vuole internazionalizzare extra UE la propria attività. Molte persone che arrivano nei miei uffici e vogliono aprire una società in svizzera per sfruttare la minore pressione fiscale pur continuando a lavorare in Italia, si scontrano con il concetto sacrosanto di esterovestizione. Fatta questa ampia premessa, passo subito alle conclusioni: snellezza della burocrazia, minor peso del fisco, ampia deducibilità dei costi, possibilità di pensare al proprio lavoro e non alle carte e ai moduli da riempire, rapporto diretto con il fisco, certezza della pena, serietà di chi fa applicare le leggi, stabilità politica, ricchezza e precisione svizzera, rimango fattori ampiamente attraenti per qualsiasi imprenditore internazionale che voglia fare del sano business.



Accetta la nostra privacy policy prima di inviare il tuo messaggio. I tuoi dati verranno utilizzati solo per contattarti in merito alla richieste da te effettuate. Più informazioni

The cookie settings on this website are set to "allow cookies" to give you the best browsing experience possible. If you continue to use this website without changing your cookie settings or you click "Accept" below then you are consenting to this.

Close