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Il linguaggio non verbale nelle aziende

Intervista a Simone Lisi

A cura di Luigi Torriani

SIMONE LISI – Consulente informatico, Fondatore e Direttore Operativo dell’Aurora Academy, società di Formazione, di Coaching e di Business Training. Simone Lisi, oltre ad affiancare le aziende, tiene corsi e lezioni in tutta Italia su Linguaggio Non Verbale (LNV), PNL, Job Crafting.

Anche da parte di persone che “si presentano bene”, con buone capacità relazionali e con una padronanza totale sul piano retorico e dell’oratoria, è frequente la sottovalutazione dell’importanza del linguaggio non verbale. In ambito aziendale quali sono gli errori più frequenti nel linguaggio non verbale, quegli errori che possono condizionare negativamente – senza che la persona se ne renda conto – occasioni e situazioni professionali?

L’essere un relatore che ha un’ottima padronanza sul piano teorico e dell’oratoria sicuramente ti mette su un piano di vantaggio rispetto a un’altra persona che non ha queste caratteristiche. La capacità oratoria, tuttavia, da sola non basta se non viene supportata da una buona comunicazione paraverbale e non verbale. Per meglio spiegare questo concetto le porto come esempio un fatto realmente accaduto in un convegno centrato su questo argomento, al quale con altri ho partecipato come relatore. Il convegno era indirizzato ad un pubblico particolare, persone che con il linguaggio non verbale devono confrontarsi ogni giorno, proprio per lavoro: gli artisti. Il mio intervento era il centrale di 3 previsti per la serata conclusiva, e seguiva quello di un professionista eccezionale, che collabora con forze dell’ordine, tribunali, studi legali nel campo del linguaggio non verbale. Proprio per queste sue specializzazioni il professionista in questione aveva sviluppato anche un’ottima padronanza oratoria e della retorica, ma per lo stesso motivo il suo linguaggio non verbale e paraverbale era molto deciso e fermo. Essendo io meno “specializzato” di lui, più abituato a generi diversi di ascoltatori e “studenti”, anche se il mio intervento è arrivato dopo il suo, nei feedback finali chiesti alla platea l’85% dei presenti ha definito il mio intervento come “coinvolgente” e ricordava nella quasi totalità gli argomenti da me esposti.

L’altro intervento è stato definito “troppo rigido e distaccato”, e quasi il 60% degli intervistati non ricordava gli argomenti trattati al di là dei primi 5 minuti. Preciso di nuovo che si trattava di un convegno dedicato agli artisti, e quindi a figure poco recettive di fronte ad un paraverbale e non verbale più “militaresco”. L’errore che ha commesso l’altro oratore, anche se professionista, è stato quello di non rispettare una delle regole fondamentali della comunicazione, che risulta anche essere l’errore più frequente che si commette in occasioni e situazioni professionali, e cioè: “Feedback”.

Purtroppo molti oratori, seppur bravi, non prestano attenzione ai feedback che i nostri interlocutori o ascoltatori, immancabilmente, ci inviano con i loro corpi in risposta alla nostra esposizione e che ci possono indicare: Mancanza di interesse, Incomprensione, Distrazione, e tanto altro ancora. Tutte quelle informazioni tramite le quali possiamo correggere la nostra esposizione adattando il nostro “abito mentale” al contesto.

 

Venditori e commerciali – se opportunamente formati – potrebbero trarre importanti benefici dalla capacità di “leggere” il linguaggio non verbale altrui. Quali sono i principali segnali corporei e non verbali che dovrebbero far capire a un commerciale che il cliente o il prospect con il quale sta parlando non è al momento soddisfatto e che per convincerlo bisogna cambiare approccio?

Penso – e soprattutto spero – che nessun formatore le faccia mai un mero elenco dei segnali corporei e non verbali, indicatori di gradimento o meno che i nostri interlocutori possono inviarci. I fattori da prendere in considerazione sono tanti, e possiamo riepilogarli in 3 macro categorie: Gesti, Espressioni facciali, Tratti vocali. Questo però non basta per poter interpretare ciò che sta succedendo intorno a noi in un determinato istante. Per una corretta analisi dobbiamo esaminare i segnali tenendo conto della regola delle “3 C”: Coerenza, Contesto, Complesso.

Tanto per spiegare un poco più a fondo di cosa parliamo, le 3 macro categorie ci servono per la prima delle 3C, “la coerenza”. Calcoli che più del 90% di ciò che comunichiamo si esprime attraverso segnali visivi e vocali, cioè attraverso il paraverbale ed il corpo. La prima cosa da analizzare è se questi segnali siano coerenti con quel 7% che comunichiamo attraverso le parole. Ma per avere un quadro completo dobbiamo far entrare in campo anche le altre 2 C, contesto e complesso. Come precisazione può apparire ovvia, ma vi garantisco che non lo è affatto. Occorre sempre prestare attenzione al contesto in cui è calato il comportamento preso in esame, e dobbiamo tener conto dell’intero spettro del paraverbale e del non verbale, non semplicemente del singolo gesto o timbro di voce, che magari possono essere dettati solamente da cattive abitudini del soggetto che li sta manifestando. Tutto questo ci fa capire quanto sia importante un’adeguata formazione in questo ambito (non ci si improvvisa esperti, e senza ottime basi ed esperienze rischieremmo di avere più risultati negativi che positivi), e ci fa comprendere anche quanto sia importante la padronanza di altre tecniche come il “Cold reading” e “L’Overview”.

 

Studiare il linguaggio non verbale e cercare di modificare il proprio correggendo errori di cui non ci si rendeva conto, non rischia però di far perdere in spontaneità? Seguire delle “regole” del linguaggio non verbale non fa sembrare la persona “finta”? Non rischia di offrire all’interlocutore l’immagine di qualcosa di forzato e di “studiato”?

Per rispondere al meglio alla sua domanda le porto a paragone un esempio sportivo; tra un atleta che ha il suo modo di “giocare” ed intestardendosi applica sempre quello contro qualsiasi avversario ed in qualsiasi contesto, ed uno che invece sa adattare la tecnica e la tattica al gioco degli avversari e/o al contesto in cui si svolge la gara (pensi alle varie superfici a cui deve adattarsi un tennista, o alle diverse tipologie di tappe per un ciclista, o alle diverse marcature dei difensori o i diversi terreni di gioco per un goleador), quale secondo lei è il vero fuoriclasse? Chi dei due è più vincente? Quale viene ammirato di più da chi guarda? Chi ha più fans o al giorno d’oggi followers? La stessa cosa vale in ambito lavorativo. È inopinabile che il miglior modo, quello più efficace, per comunicare con gli altri è quello assertivo (capacità di esprimere in maniera chiara ed efficace le proprie idee, senza essere prevaricante). Ecco che entra in gioco tutto quanto detto fin d’ora: per potere arrivare a una buona comunicazione assertiva si devono avere solide basi di conoscenza della comunicazione verbale, paraverbale, non verbale, ma anche un’ottima capacità di lettura del contesto e del complesso in cui ci troviamo e/o ci dobbiamo calare.

Volendo spingerci ancora più avanti: chiunque voglia impegnarsi per operare al meglio deve avere un proprio “abito mentale”, che possiamo definire come “l’atteggiamento di chi desidera ottenere qualcosa che reputa importante e durante il percorso per ottenerlo sa adattare le proprie caratteristiche al contesto, senza però abbandonarle”, ovvero – e detto più brevemente – sa “adattarsi rimanendo se stesso”. Le garantisco che nessun oratore che abbia queste caratteristiche è mai risultato finto o costruito agli occhi degli interlocutori. La naturalezza con cui si applicheranno certe tecniche, una volta fatte proprie, farà la differenza in ogni ambito, da quello familiare a quello lavorativo a quello sociale.

 

Tra la comunicazione verbale e quella non verbale c’è anche una comunicazione paraverbale, che ha a che fare con il tono, il timbro e il volume della voce. Quanto è importante questo aspetto?

Per risponderle faccio riferimento ad uno studio condotto nel lontano 1971 dallo psicologo Albert Mehrabian per l’UCLA (famosa università di Los Angeles). In base ai dati emersi da questo studio, Mehrabian formulò il modello del “55, 38, 7%”, secondo il quale: il 55% del messaggio comunicativo è trasmesso attraverso il linguaggio non verbale (gesti, mimica facciale, posture); il 38% è trasmesso dal paraverbale (tono, ritmo, timbro della voce), e soltanto Il 7% è trasmesso dalla comunicazione verbale. I risultati di questo studio, tradotti in forma grafica, sono ancora oggi la slide di apertura dell’80% dei corsi sulla comunicazione. E studi più recenti dimostrano che – pur rimanendo sostanzialmente corretta la teoria “55-38-7” – il paraverbale ha, in percentuale, un’influenza su chi ci ascolta ben più alta di quel 38%. Pensiamo a come un genitore riesca a fermare un bambino (al di fuori della sua portata fisica) che si sta cacciando in qualche guaio o sta per commettere qualche marachella, semplicemente utilizzando un tono di voce deciso ed incisivo. Nei nostri percorsi formativi, proprio per dimostrare quanto sia vera la regola “55-38-7” nella comunicazione, ai presenti proponiamo 2 esercizi, uno che dimostri quanto il paraverbale possa condizionare il nostro subconscio, ed uno che serve a dimostrare come siamo più propensi ad “ascoltare” il non verbale che il verbale. Le garantisco che al termine di questi 2 esercizi, più del 90% delle persone che vi partecipano si accorgono di aver fatto qualcosa che non dovevano fare solo dopo averglielo fatto notare, e la cosa naturalmente li lascia “a bocca aperta”. In conclusione mi permetto di esprimere un mio pensiero: sia individualmente che a livello aziendale, in un momento storico in cui la tecnologia è sempre più presente e predominante nelle nostre vite, se si vuole fare veramente la differenza o si vuole colmare quella differenza che fa la differenza, non si può fare a meno di tornare a porre il proprio “IO” cosciente e costruttivo alla guida della propria vita.



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