L’impatto del Covid sulle aziende italiane. Un’analisi dei dati Istat

L’impatto del Covid sulle aziende italiane. Un’analisi dei dati Istat

Articolo di Matteo Borghi

A cura di Matteo Borghi

“Scritta in cinese la parola crisi è composta di due caratteri. Uno rappresenta il pericolo e l’altro rappresenta l’opportunità”. Non c’è miglior frase di quella dell’ex presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy per descrivere le conseguenze sulle imprese italiane dell’epidemia di Covid-19 e delle politiche di chiusura applicate dal governo Conte bis. Crisi e opportunità, come due facce opposte della stessa medaglia che, tuttavia, si distribuiscono in modo diseguale nei diversi settori.

 

Fra crisi e opportunità

Un ottimo strumento per capire cosa è successo e cosa sta ancora accadendo è il report dell’Istat dal titolo “Situazione e prospettive delle imprese nell’emergenza sanitaria Covid-19”, pubblicato, in seconda edizione, nel dicembre del 2020. “Tra giugno e ottobre – scrive l’Istat – riduzioni di fatturato per oltre due terzi delle imprese: il 32,4% (con il 21,1% di occupati) segnala rischi operativi e di sostenibilità della propria attività e il 37,5% ha richiesto il sostegno pubblico per liquidità e credito, ottenendolo nell’80% dei casi”. Una doccia fredda che ha tuttavia margini di speranza tra cui il dato per cui “la diffusione della vendita di beni o servizi mediante il proprio sito web è quasi raddoppiata, coinvolgendo il 17,4% delle imprese”. “Nonostante la crisi – conclude l’Istat – il 25,8% delle imprese (che occupano il 36,1% degli addetti) è orientata ad adottare strategie di espansione produttiva”.

Questo ritratto del paese in tre immagini – quasi una tesi, un’antitesi e una sintesi in termini hegeliani – si ripercuote nei singoli settori che, a seconda della tipologia di prodotto e servizio offerto (oltre ovviamente al grado di adattabilità del business alle mutate condizioni del mercato), riescono a fronteggiare più o meno bene quella che non si preannuncia come crisi passeggera ma come un vero e proprio radicale cambio di scenario.

 

Le cause della crisi

Secondo quanto riporta l’Istat, il 68,4% delle imprese (che rappresentano il 66,2% dell’occupazione) ha dichiarato una riduzione del fatturato nei mesi giugno-ottobre 2020 rispetto allo stesso periodo del 2019. Nel 45,6% dei casi il fatturato si è ridotto tra il 10% e il 50%, nel 13,6% si è più che dimezzato e nel 9,2% è diminuito meno del 10%. Le micro imprese (3-9 addetti), attribuiscono il calo del fatturato alle restrizioni dovute all’attuazione dei protocolli sanitari, con un’incidenza del 43,2%. Nelle piccole imprese tale quota scende al 35,4% mentre le grandi imprese dichiarano di essere state maggiormente colpite dal calo della domanda di beni e servizi a livello nazionale (36,1% delle risposte tra le imprese di 20-249 addetti e 38,7% tra quelle di 250 addetti e più) o estero (24,8% e 24,3%).

L’incidenza delle limitazioni agli spostamenti diventa ancor più significativa nei settori più interessati dalle chiusure, tra cui spicca spicca quello delle agenzie di viaggio e tour operator: l’88% dichiara una assenza di fatturato o una perdita superiore al 50%. Diminuzioni superiori alla media si rilevano anche nel campo delle attività creative e artistiche, di produzione cinematografica e musicale, sportive e di intrattenimento, nell’assistenza sociale non residenziale, case da gioco, attività di noleggio e leasing, istruzione e nel settore della pubblicità e ricerche di mercato. Incisivo, soprattutto per le piccole realtà, il costo sostenuto per l’adeguamento delle strutture, la sanificazione e la fornitura di DPI, considerato rilevante dal 64,8% delle imprese (76,2% degli addetti).

 

I settori più colpiti e quelli in crescita

Di particolare interesse un’analisi pubblicata dall’agenzia di informazioni commerciali Cerved, che ha stimato l’impatto della crisi sui singoli settori con un duplice scenario “soft” e “hard”.

Seguendo i dati dello scenario migliore i settori più colpiti sono, nell’ordine: attività di proiezione cinematografica (-65%), trasporti aerei passeggeri (-50,8%), gestione aeroporti (-46,7%), trasporti pubblici locali (-44,2%), agenzie e tour operator (-43,8%), alberghi (-42,9%), taxi, Ncc, convegni e fiere (al -40%), strutture ricettive extra-alberghiere (-35,4%) e ristorazione (-33,8%).

Al contrario i settori in maggiore espansione sono: commercio online (+35%), produzione di respiratori artificiali (16,8%), attrezzature e articoli di sicurezza (12,3%), tessuti non tessuti e altri tessili tecnici industriali (11,3%), supermercati, discount e minimarket (10,7%), specialità farmaceutiche (10,6%), fabbricazione di vetro per laboratori, farmacie e a uso igienico (10%), fabbricazione di casse funebri (9,7%), materie prime farmaceutiche (7,9%) e commercio al dettaglio di prodotti surgelati (7%).

Simile la situazione nello scenario “peggiore” in cui, in realtà, a fronte di maggiori perdite per i settori in crisi (ad esempio i cinema si attestano a -80%), si registrano paradossalmente maggiori guadagni per i settori in crescita, rafforzati da un impatto più significativo dell’epidemia (commercio online al +40% e respiratori artificiali al +19,5%).

Complessivamente – riporta sempre il Cerved – a causa del Covid le imprese hanno perso 47 miliardi di euro di capitale (-5,4%). In uno scenario severo, questo valore potrebbe crescere fino a 68 miliardi (19 miliardi a causa di default e 50 a causa della riduzione di scala), pari al 7,7% del capitale pre-Covid.

 

Una exit strategy per tornare a crescere

Rileggendo con attenzione i dati del precedente paragrafo, non si può non accorgersi del fatto che, a parte i settori strettamente legati alla pandemia (respiratori, Dpi ma anche supermercati e catene di surgelati, che durante le festività compensano la perdita dei ristoranti forzati alla chiusura), l’unico settore che cresce senza paragoni è quello delle VENDITE ONLINE. Un effetto di cui non ha beneficiato solo un colosso come Amazon, che nel periodo marzo 2020 – febbraio 2021 ha visto raddoppiare il valore delle proprie azioni, ma anche le Pmi che hanno potuto e saputo sfruttare l’opportunità.

Tutte le imprese che hanno fronteggiato meglio l’anno passato lo hanno fatto grazie alle nuove tecnologie: non solo quel 17,4% che pratica regolarmente l’online selling ma anche e soprattutto il 39,2% delle realtà con servizi digitali di interazione con la clientela, in aumento del 17% rispetto all’era pre-Covid (dati Istat). Tra le strategie di reazione la più importante è l’espansione della connettività a banda ultralarga, già ampiamente diffusa in periodo pre-Covid (il 46,2% delle imprese utilizzava connessioni via fibra, il 41,7% via rete mobile) che ha visto un incremento combinato di qualità e disponibilità di 12 punti percentuali per entrambe le modalità di connessione. La disponibilità di connessione è stato un vero e proprio volano per l’espansione dei servizi di comunicazione digitale con il pubblico.

I siti web aziendali – cita sempre l’Istat – considerati già adeguati prima dell’emergenza dal 40,7% delle imprese, sono stati introdotti o migliorati da un ulteriore 12,4%, raggiungendo una copertura pari al 53%. L’incremento è simile in tutte le classi dimensionali, anche tra le imprese con 3-9 addetti che partivano da una diffusione del 35% e hanno raggiunto il 47%. Hanno avuto una diffusione non irrilevante anche gli investimenti tecnologici per migliorare la qualità e l’efficacia del sito web, con l’effetto secondario di generare dati sull’utilizzo del web da parte della clientela, essenziali per un’ottimizzazione della gestione. Tali investimenti, che in precedenza riguardavano l’11,2% delle imprese, sono divenuti pratica comune per un altro 12,6%. Rafforzata anche l’interazione con la clientela attraverso i social media, già presente nel 22,2% delle imprese, che è stata introdotta o migliorata durante la crisi Covid da un ulteriore 17%. I servizi digitali (newsletter, tutorial, webinar, corsi, ecc.), che erano forniti dall’8,1% delle imprese, sono stati molto rafforzati o introdotti da una quota rilevante di imprese, e sono ora resi disponibili dal 21,6% delle imprese.

 

Investimenti digitali e crescita: un legame indissolubile

La famosa frase “investire in pubblicità in tempo di crisi è come costruirsi le ali mentre gli altri precipitano”, attribuita a Steve Jobs (che pure criticava l’advertising come mero strumento per opporsi a una cattiva reputazione aziendale), è oggi vera più che mai se sostituiamo alla parola “pubblicità” l’online marketing. Del resto non potrebbe essere altrimenti, in una realtà in cui la progressiva trasformazione dei nativi digitali in consumatori consapevoli si accompagna a necessità – più o meno imposte – dettate dall’epidemia di Covid-19, che ha ristretto gli spazi fisici di consumo in favore di quelli online. In questo contesto grande successo hanno i brand che sanno comunicare meglio con gli utenti. Secondo uno studio We Are Social – Hootsuite fra l’aprile del 2019 e l’aprile del 2020, a fronte di un aumento della popolazione mondiale dell’1,1% (82 milioni di persone), il numero di utenti telefonici è salito del 2,5% (+128 milioni), quello di utenti internet del 7,1% (301 milioni) e quello degli utenti di social media dell’8,7% (+304 milioni). Numeri impressionanti in appena 12 mesi, dettati dal fatto che – nonostante ampie aree del pianeta soffrano una profonda crisi – ve ne sono altre che, uscendo dalla povertà assoluta, cominciano a desiderare prodotti e servizi che in Occidente diamo da tempo per scontati. Un nuovo mondo, con nuovi mercati, che anche le Pmi italiane possono tentare di conquistare.



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