Mind body problem

A cura di Luigi Domenico Casiraghi
MIND – BODY PROBLEM

MIND – BODY PROBLEM

Uomo chi sei? 

Alla domanda si darà una possibile risposta da un punto di vista particolare e precisamente dal punto di vista del rapporto “mente-corpo“, che Schopenhauer definisce “Welknoten”: nodo del mondo”.

Ogni atto dell’uomo infatti implica un interessamento della parte fisica e fisiologica (il corpo) e di quella psichica: coscienza, pensiero e volontà libera (la mente) che interagisce con il corpo. 

Allora la nostra domanda si traduce in: qual è in un essere umano la relazione fra la sua mente e il suo corpo?  

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Uomo chi sei? La questione di fondo esige necessariamente una risposta alle ulteriori seguenti domande: che cos’è un corpo umano? che cos’è una mente umana? Si tratta di risolvere il mind-body problem!

Il mind-body problem si è imposto in un tempo abbastanza recente.  Nell’intero arco della Storia della filosofia è stato sempre declinato come problema del rapporto corpo-anima, e ha presentato diverse configurazioni e prospettato disparate soluzioni:

– dualismo di corpo (sòma)-anima (psyché) (Platone);

– unità sostanziale di corpo-anima (Aristotele-S. Tommaso);

– contrapposizione di res cogitans-res extensa (Cartesio).

Cartesio lascerà ai filosofi dopo di lui il compito di ricomporre la contrapposizione: da Spinoza e Leibniz, passando per Kant e l’Idealismo, per arrivare a Schopenhauer, Nietzsche e Freud.

Oggi, prevale l’idea di rifiutare, nell’uomo, una realtà materiale (il corpo) e una realtà spirituale (l’anima), abbandonando quindi il dualismo proprio del pensiero tradizionale, per considerare l’essere umano nella sua esistenza concreta come evento unico esclusivo o come individuo riducibile ad ogni altro essere vivente appartenente alla natura.

A partire dagli anni 90 del secolo scorso infatti grazie alla ricerca scientifica, in particolare a quella delle neuroscienze, la presenza dello stesso problema assume modalità straordinarie: nel numero dei contributi, nel vigore delle contrapposizioni, nelle novità delle metodologie, nello scambio degli esiti, talora sensazionali, nelle più avanzate sperimentazioni con nuovi paradigmi di ricerca e intuizioni operative.

La possibilità di studiare in vivo i processi mentali, dovuta soprattutto alla risonanza magnetica funzionale (fMRI), sta infatti aprendo scenari rivoluzionari in tutte le discipline che studiano l’uomo: non solo in quelle specificatamente scientifiche: medicina, biotecnologie, neuroscienze, ma anche in quelle delle scienze umane: filosofia, economia, diritto, etica, politica.

 La fMRI, infatti, è come il cannocchiale di Galileo: ci consente di vedere ciò su cui prima potevamo solo speculare, perché permette l’accesso diretto non più solo al cervello, ma anche alle sue funzioni in atto.

È una nuova rivoluzione copernicana!

Alcuni temi che emergono da questa rivoluzione sono la possibilità di studio e quindi di controllo del cervello; di alterare le funzioni cerebrali; di potenziare le capacità cognitive ed emotive; di modificare tratti della personalità.

La conseguenza è un vivace dibattito seguito a questa rivoluzione che non poteva non coinvolgere anche il problema circa il dualismo: anima-corpo, che, come si è accennato, ha segnato sia la filosofia classica sia quella moderna. Dualismo che  si rinnova, sotto il profilo antropologico, come dualismo: mente-corpo, o più precisamente, mente-cervello, dando origine alla domanda fondamentale: come dal cervello oggettivo, finissimo nella sua struttura biologica, può scaturire una coscienza, un pensiero, una volontà libera? 

A questa domanda si danno due possibili risposte: 

1- la mente è ciò che fa il cervello: come, per esempio, la bile è una secrezione del fegato, così la mente è una produzione del cervello;

2 – l’enigma della mente, esclusivo dell’uomo, è risolto ad un livello immensamente superiore a quello strettamente fisico-biologico.

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Sappiamo che il cervello di un uomo adulto è fatto di circa 100 miliardi di cellule nervose, denominate neuroni, che sono in grado di convertire segnali di diversa natura provenienti dal mondo esterno in impulsi elettrici. Tali impulsi si trasmettono da una cellula all’altra attraverso interruttori molecolari, che si chiamano sinapsi. Ci sono 1.000.000 di miliardi di sinapsi nel cervello umano, che formano decine, se non centinaia, di migliaia di circuiti elettrici che trasmettono gli impulsi a varie velocità

Sappiamo pure che il nostro cervello, per mantenersi efficiente, è in continua ristrutturazione. E’ in grado di cambiare continuamente circuiti e funzione che vengono meno, perché danneggiati o invecchiati.

Sappiamo ora tante cose, che almeno in parte ci fanno capire come il cervello ci faccia percepire il mondo che ci circonda attraverso i cinque sensi e come ci permetta di rielaborarlo e di tradurlo in azioni concrete e pensieri astratti.

Per questo, sulla base degli attuali risultati della neurofisiologia, alcuni filosofi e scienziati affermano l’identità ontologica tra il mentale e il corporeo ed eliminano tutto l’apparato tipico della psicologia tradizionale e del linguaggio comune in relazione agli stati interiori. Solo l’ambito fisico esiste affettivamente, l’ambito mentale va eliminato, in quanto appartenente ad una visione della realtà falsa e ingannevole. 

In questa prospettiva, l’uomo è semplicemente un “pezzo di materia”. La differenza tra un essere umano e una pietra consiste soltanto nel diverso grado di complessità che connota le due strutture materiali.

E’ quanto sostiene, per esempio, il fisico Carlo Rovelli, che nell’ultimo capitolo del suo Sette brevi lezioni di fisica scrive: “ Noi, esseri umani, siamo prima di tutto il soggetto che osserva questo mondo…Lo studio della nostra psicologia si raffina comprendendo la biochimica del nostro cervello…Le nostre decisioni libere sono liberamente determinate dai risultati delle interazioni fra miliardi di neuroni del nostro cervello. C’è così tanto spazio lassù, è puerile pensare che in quest’angolo periferico della galassia delle più banali ci sia qualcosa di speciale…Quanto è specificamente umano non rappresenta la nostra separazione dalla natura, è la nostra natura”.

Questa tesi di Rovelli è, ripeto, condivisa da filosofi e scienziati contemporanei, i quali ritengono che alcune manifestazioni intellettive e volitive non sono altro che attività di un cervello altamente strutturato e perfezionato come è appunto quello dell’uomo.

È la stessa tesi, infatti, della corrente di pensiero della Scuola Australiana, chiamata fisicalismo, rappresentata da U.T. Place, J.J. Smart, D.M. Armostrong, che alla domanda: la coscienza è un processo cerebrale? Rispondono: non è razionale ammettere l’esistenza della coscienza e della configurazione neurofisiologica corrispondente: esse sono solo due espressioni per riferirsi ad un’unica realtà. Il linguaggio tradizionale e comune deve lasciare il posto al linguaggio scientifico adulto e tecnico. 

Dunque, unicità e identità ontologica tra uno stato mentale e uno stato fisico, dove è quest’ultimo a costituire la vera realtà.

Lo scienziato statunitense M. Minsky, autore di La società della mente, sostiene invece un pluralismo psichico, in quanto ritiene che ogni centro cerebrale è deputato a presiedere una qualche funzione dell’organismo. Secondo questa ipotesi, Minsky liquida agilmente la domanda che ha assillato il pensiero dei filosofi sin dalle origini, affermando: “Per quanto mi riguarda, il cosiddetto problema mente-corpo non racchiude nessun mistero: la mente è semplicemente ciò che fa il cervello…Il significato dell’intelligenza vale solo a capire l’insieme delle attività cognitive ancora oscure alla ricerca scientifica; il suo concetto scompare non appena sappiamo che cosa esso è”.

Minsky affronta anche il problema del rapporto mente-macchine, risolvendolo con una frase ad effetto: “Le menti sono macchine? A questo non ho opposto alcun dubbio, ho solo chiesto: che genere di macchine? E benché i più considerino degradante essere considerati macchine, spero che questo libro faccia invece germogliare in loro il pensiero che è meraviglioso essere macchine dotate di poteri così mirabili”. 

Questa frase ad effetto conduce a porre la seguente domanda: possono le macchine pensare? Il cervello è materia e la materia del cervello svolge le proprie attività tramite modelli di calcolo replicabili efficacemente dal computer. Nulla impedisce pertanto che si possa affermare che le macchine possano svolgere attività mentali. 

È quanto sostengono i teorici dell’I.A., che assicurano che niente appare più semplice del dotare una macchina, un cyborg, di una coscienza; un’operazione che non ritengono utile, ma neppure impossibile da attuare.

R. Searle, docente di filosofia presso l’università di Berkeley e autore di La riscoperta della mente, intende liquidare sia i sostenitori di un materialismo assoluto, sia gli assertori della mente come un’entità non fisica e prospetta una soluzione, denominata naturalismo biologico.

Sostiene che questa soluzione ha il pregio straordinario di mostrare come natura e spirito o fisico e mentale non siano concetti contrapposti, ma possono coesistere perché, nella realtà, coesistono. 

“E’ questa la tesi che vorrei emergesse dalla discussione”, scrive, “il fatto che una certa proprietà sia mentale, non implica che essa non sia fisica e, viceversa, il fatto che sia fisica non implica che non sia mentale”. In altre parole, per Searle, la mente sta in un duplice rapporto con il cervello: per un verso si identifica con esso, per un altro ne dipende. Insomma, per lui valgono i due principi: la mente è il corpo e la mente è prodotta dal corpo, cioè dalle interazioni neuroniche. 

Il filosofo-scienziato afferma che la mente esiste certamente, ma poi non dice “che cos’è” e “come funziona” e “perché sussiste”, bensì si limita a precisare, come Minsky, che l’intelligenza è un nome che vale solo a coprire l’insieme delle attività cognitive ancora oscure alla ricerca scientifica.

E’ chiaro che in questo genere di discorso non c’è posto per la mente, l’intelligenza, la coscienza. la volontà libera , in una parola, l’anima, come dimensioni non fisiche.

Lo conferma nel suo rivoluzionario “Il motore della ragione, la sede dell’anima”, il canadese Paul Churchland della corrente di pensiero denominata materialismo eliminativo. 

Egli scrive: “Un’ipotesi che gode tutt’oggi di vasta accettazione, è l’idea che l’attività cognitiva umana risieda in una sostanza immateriale: l’anima o la mente. E si sostiene comunemente che essa sopravvive alla morte del corpo fisico…Risulterà chiaro dal seguito di questo libro che è difficile far quadrare questa ipotesi così familiare con la teoria dei processi cognitivi che si va delineando e con i risultati sperimentali delle diverse neuroscienze. La dottrina di un’anima immortale sembra, per dirla francamente, solo un altro mito, falso non solo marginalmente, ma nel suo nocciolo”.

Non mancano, tuttavia, neuroscienziati e filosofi antiriduzionisti, come Karl Popper, Thomas Nagel, John Eccles, che intendono proporre un neodualismo particolare.

Popper osserva che è bizzarro nell’attuale situazione il fatto che sono gli stessi fisici a non dar più credito al materialismo, mentre esso permane ancora molto di moda tra i filosofi. Egli si preoccupa anzitutto di definire il termine “reale”. Reale non è solo l’insieme dei corpi materiali solidi, ma tutto ciò che agisce in modo diretto o indiretto con essi. Anche in fisica si accettano come reali i campi di forze: gravità, magnetismo, elettromagnetismo, solo perché agiscono su cose materiali.

Ciò ha il suo riscontro nel campo del mind-body problem. 

E’ proprio la capacità del pensiero di intervenire sulla materia e di trasformarla, sempre attraverso l’azione dell’uomo, la prova dell’esistenza dei contenuti di pensiero e dei prodotti della mente: cultura, arte, scienza e filosofia, che, Popper chiama Mondo 3, il quale interagisce con il Mondo 2, costituito dalle disposizioni psicologiche e stati inconsci e con il Mondo 1 delle entità fisiche. In altre parole, poiché la condizione necessaria per essere reale è l’interazione con i corpi, la mente, in quanto interagisce con il corpo è dunque reale.

Nagel sostiene che la ragione (mente) implica un’esperienza soggettiva irriducibile; ciò non significa che le sue operazioni cadano sotto la qualifica di soggettivismo.

Egli lo dimostra richiamando l’obiezione allo scetticismo: l’affermazione che la ragione è soggettiva è fatta dalla ragione stessa che, affermando la propria soggettività, ritiene di dire qualcosa di oggettivo. La ragione, cioè, può dire qualcosa di oggettivo ma essa stessa non è oggettivabile, nel senso che non può essere considerata dall’esterno come un oggetto. 

La tesi è che la ragione proprio perché non oggettivabile, è la garanzia della oggettività. Essa è quindi qualcosa di specifico e di irriducibile: essendo capace di oggettivare ogni cosa, è ciò che non può essere oggettivato come le altre cose; non può essere ridotta alle altre cose. Essa è al di là degli oggetti fisici, del corpo e del cervello.

Eccles, premio Nobel in medicina e fisiologia per gli studi sulle cellule nervose, coautore con Popper del libro: L’io e il suo cervello, non esita ad affermare: “L’esistenza della mente è indubbia e negarla costituisce un mero esercizio di autocontraddizione”. Con che cosa si nega, infatti, la mente se non con un atto di pensiero, ossia mentale? 

E conclude: “E’ assurdo negare l’esistenza della mente solo perché non si riesce a comprenderla. L’evidenza della sua esistenza va fatta coesistere con il mistero della sua natura”.

Come si evidenzia, il mind-body problem sia nella scienza sia nella filosofia è attraversato da una molteplicità di sguardi e di soluzioni tutt’altro che omogenei.

L’assunto che quando la mente è attiva, il cervello è a sua volta attivo e che inoltre a determinate attività mentali corrisponde l’attivazione di determinate aree e circuiti nervosi, pone a questo punto la domanda fondamentale accennata sopra: come dal cervello oggettivo, finissimo nella sua struttura biologica e attività fisiologica, possono scaturire una coscienza, un pensiero, una volontà libera, espressioni di una mente soggettiva?

Idan Segev, professore di Neuroscienze dell’Università di Gerusalemme, scrive: “Apparentemente, le analisi ottiche o elettriche del cervello umano permettono al ricercatore che osserva l’attività cerebrale di predire con una grande precisione ciò che farà la persona (quale pulsante premerà il destro o il sinistro), alcuni secondi prima che la persona stessa sia consapevole, cioè in grado di dirlo, di quale sarà la sua decisione. Per così dire, il “cervello” prende una certa decisione e “noi”, i padroni del cervello, non ne siamo ancora consapevoli. Il ricercatore sul cervello che osserva da fuori il processo decisionale può dire in anticipo quale sarà la decisione. Quindi, qual è il significato del nostro essere liberi di scegliere? E chi sceglie?”

La mente, dunque, riducibile al cervello e l’uomo riducibile alla sola dimensione fisico-biologica?  Eliminata perciò la dimensione non fisica?

In altri termini, dobbiamo pensare l’uomo secondo i canoni della scienza, operando una decostruzione della persona e una sua riduzione agli ultimi elementi costitutivi (bio-molecole, geni, proteine ecc), o riconoscergli un di più, che trascenda la dimensione fisico-biologica e che quindi non può essere oggetto di ricerca della scienza ma di un altro sapere, quello metafisico-filosofico?

Certo, l’uomo è sempre uno sconosciuto, che necessita di essere continuamente riscoperto attraverso un’attenta riflessione e uno studio libero da pregiudizi culturali e anche scientifici.

Da capo allora la domanda: Uomo, chi sei? 

Il già citato Thomas Nagel ha pubblicato nel 1974 un famoso articolo con il titolo curioso: Che cosa si prova ad essere un pipistrello?

La questione che viene messa a fuoco concerne lo statuto ontologico delle esperienze soggettive, ossia, la questione se la dimensione non materiale della mente sia solo apparenza e illusione oppure sia effettiva realtà. 

Nagel osserva che il pipistrello ha senza dubbio esperienze soggettive, fossero solo quelle del dolore, della fame o della percezione del mondo esterno tramite il sonar che gli permette di cogliere la distanza degli oggetti, e così, di costruire la propria rappresentazione del mondo. La sfida di Nagel riguarda la possibilità di immedesimazione con il pipistrello: non tanto lo sforzo di figurarci che cosa proveremmo noi ad essere quell’animaletto, quanto piuttosto di immaginare che cosa prova il pipistrello stesso. È evidentemente un’esperienza che non è dato di percepire. Si deve concludere allora che tale esperienza soggettiva non esiste, solo perché non è conoscibile da nessun soggetto, eccettuato colui che la vive, il pipistrello in questo caso, e quindi non oggettivamente rilevabile? Evidentemente no! È infatti l’esperienza propria del pipistrello: tanto basta per dire che è qualcosa, che è reale.

Ecco l’errore dei riduzionisti materialisti: equiparare inconoscibilità e inconsistenza. Anche se quell’esperienza soggettiva resterà inconoscibile, ciò non è affatto un motivo sufficiente per sostenere che non esiste.

La scienza è nata, cresciuta e progredita in modo impressionante sull’assunto di circoscrivere un ambito oggettivo indipendente dalla nostra mente, non è tuttavia corretto voler sottoporre ai metodi e ai principi della scienza la dimensione soggettiva, che si è a priori esclusa. La scienza prescinde da questa dimensione, ma prescindere non significa negare.

È lecito allora porci la domanda: cos’è la coscienza, si dica pure: il pensiero, la mente? 

La coscienza è sempre “coscienza di”, cioè non è nulla in se stessa, è “vuoto d’essere”, precisa Sartre, indipendentemente dal riferimento a un certo contenuto, ossia non è nulla, se non come manifestazione, apparire, presenza, essere dato di un oggetto o di un determinato contenuto. 

In  greco infatti “verità” si dice Alétheia: non-nascosto, manifesto, presente.

In altre parole, si vuol affermare la costitutiva relazionalità, in termine  filosofico, l’intenzionalità (dal latino: intentio-tendenza a/verso), intrinseca alla coscienza come tale; più semplicemente la sua apertura al mondo, alla realtà, nel senso che è sempre coscienza di qualcosa, che a sua volta non è coscienza. 

Questa apertura è un dato immediato, che non richiede dimostrazione, perché è indimostrabile. Si tratta di un’esperienza diretta, ossia di un “vissuto” .

Ora, è vero che la coscienza (la mente) esige la piena funzionalità degli organi corporei, i sensi, e del nostro cervello, che subiscono l’azione di oggetti esterni e a tale azione reagiscono adeguatamente.

Essa tuttavia non si identifica con i processi fisiologici degli organi di senso e del cervello, perché è un qualche cosa, che, pur essendo reso possibile da quei processi, tuttavia se ne distingue essenzialmente e qualitativamente. 

Lo dimostra il fatto che abbiamo in linea di principio la possibilità di conoscere tutte le cose.

Lo aveva già affermato Aristotele nello scritto Sull’anima: “L’anima, (ossia il soggetto cosciente e intelligente) è in qualche modo tutte le cose”. Se fosse un corpo non potrebbe avere questa capacità: infatti, l’occhio vede solo i colori, l’orecchio sente solo i suoni, l’olfatto percepisce solo gli odori ecc.  Noi con l’intelletto, il pensiero, la mente possiamo conoscere invece tutte le cose.

Perciò, la coscienza, (il pensiero, la mente) non deve essere nulla in sé, proprio per poter essere ogni cosa, per poter essere pura trasparenza di qualsiasi oggetto distinto da essa. 

 

Come una finestra, che fa vedere tutto ciò che sta fuori senza essere vista, mentre quando è osservata in quanto tale, nella sua forma, nelle sue dimensioni ecc., diviene un oggetto come gli altri, perché non funge più da finestra.

La coscienza, come la ragione, di cui parla Nagel, può dire qualcosa di oggettivo, ma essa stessa non è oggettivabile, nel senso che essa non può essere considerata dall’esterno come un oggetto.

Questo perché la coscienza non è solo pura trasparenza di qualsiasi oggetto distinto da sé, bensì è anche coscienza di sé, ossia è autocoscienza, ha cioè la capacità di riflettere su di sé e sui suoi atti , attività impossibile ad un corpo, che funzionerebbe come un diaframma o schermo (l’occhio infatti, non vede se stesso mentre vede, l’udito non sente se stesso mentre percepisce un suono).

Ma tale capacità di riflessione su di sé e sui propri atti significa anche capacità di autodeterminarsi e quindi libertà. Libertà, infatti, non solo è assenza di necessità, bensì comporta anche padronanza della propria attività. Si è liberi in quanto si è padroni delle proprie scelte, delle proprie decisioni e quindi delle proprie azioni. 

Dunque, la coscienza  (mente), in quanto trasparenza e in quanto autocoscienza, non ha nulla di fisico, è non materiale, ed è quel “di più”, che fonda e giustifica la razionalità e quindi il nostro essere persona. 

Con il termine “persona” si vuol significare, appunto, che l’uomo è un essere corporeo, razionale, autocosciente, libero.

Di qui i caratteri dell’essere umano che ne fanno una persona: sono la soggettività, la razionalità, l’identità, la libertà, ossia la capacità di autodeterminarsi e di proporsi da sé i propri fini.

L’uomo, così inteso, risolve l’antico problema dell’unità del corpo e dell’anima, così che il corpo non è l’antitesi dello spirito, ma piuttosto il suo modo di essere nel mondo e di rapportarsi ad esso.

Risolve anche il problema, oggi tanto discusso, del rapporto mente-cervello.

Un’analisi fenomenologica, condotta in questa prospettiva, ci consente, dunque, di delineare la realtà dell’essere umano: 

-un bìos, ossia una vita fisico-biologica;

– una psyché, ossia una mente: le disposizioni psicologiche e la capacità di pensare e di volere;

– uno spirito, ossia l’io o sé consapevole, autocosciente e libero, comunemente chiamato anima.

Tre livelli di un unico tutto, la persona, le cui manifestazioni sono in ogni momento la risultante dell’azione integrata delle tre componenti, che lo fanno tale.                                  

Se questo è l’uomo non resta più spazio alla tesi dei fisicalisti della Scuola Australiana o dei filosofi-scienziati riduzionisti come C. Rovelli, M. Minsky , R. Searle e P. Churchland, che riducono la mente a ciò che fa il cervello.

La relazione, anzi la puntuale corrispondenza tra l’attività del cervello e della mente, il fatto stessa che la mente esiga la piena funzionalità degli organi corporei, i sensi, e del nostro cervello, non implicano necessariamente una loro identità, ossia una riduzione della mente al cervello.

I sensi e il cervello sono la condizione per il buon funzionamento della coscienza, del pensiero, della volontà, insomma, della mente, ma non la causa.

La causa è l’io cosciente e intelligente proprio perché è lo stesso e medesimo uomo che grazie al corpo fa esperienza del mondo e grazie alla mente, è cosciente e autocosciente, pensa e vuole.

Scrivono K. Popper e J. Eccles nell’opera che si è già citata: “L’io svolge due azioni: riceve e trasmette. In termini più radicali Popper asserisce: “E’ il cervello ad essere posseduto dall’io, piuttosto che il contrario…L’attività dell’io è l’unica autentica che conosciamo”.

La grande scoperta delle neuroscienze infatti è la plasticità del cervello: per tutta la vita il nostro cervello si modifica ed evolve a seconda di come pensiamo e a seconda di come lo usiamo. A seconda di come pensiamo si modificano i neurotrasmettitori. Cambiando il nostro pensiero cambiamo le nostre abitudini.

Come scrive il filosofo e psicologo statunitense J. James: “Un essere umano può cambiare la propria vita semplicemente cambiando il proprio modo di pensare”. 

Ma si è visto che questa stretta relazione tra mente e cervello non implica necessariamente la loro identità proprio perché la mente non è una cosa e per questo non può essere oggetto di ricerca e di studio della scienza.

Lo conferma lo stesso  Idan Segev, che così si interroga: “La conoscenza sul cervello si estende e si approfondisce a un ritmo impressionante. Rimangono tuttavia le questioni fondamentali. Il mistero più grande, la questione più aperta di tutte, è come si traduca in fin dei conti l’attività nervosa del nostro cervello nell’esperienza individuale, specifica: l’amore, l’odio, la sensazione di dolore, la gioia alla vista di un volto conosciuto, l’etica”. 

E continua: “Forse non c’è bisogno di sperare che la scienza moderna, pur così capace, spieghi in chiave scientifica tutte queste cose, anche se è possibile che il cervello artificiale che costruiremo nel futuro percepisca esattamente le stesse sensazioni”. 

Ma anche allora l’osservazione di Albert Einstein rimarrà valida: “Sarebbe possibile descrivere tutto in termini scientifici, ma non avrebbe senso e sarebbe insignificante, come descrivere una sinfonia di Beethoven come variazione di onde di pressione”.

Infatti, G. Edelman, biologo e premio Nobel per la medicina, scrive: “Sarebbe da sciocchi prefigurarsi la forma, che la scienza del futuro assumerà. Basti sapere – ed è anche motivo di consolazione – che, qualunque sia la forma assunta, la vita cosciente sarà sempre più ricca della descrizione che ne dà la scienza”.



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