Futuro delle imprese lombarde

Presente e futuro delle imprese lombarde

Intervista a Stefano Binda, Responsabile regionale area politiche del lavoro e relazioni sindacali Cna Lombardia

A cura di Luigi Torriani

Un tempo si parlava della Lombardia come “locomotiva d’Italia e d’Europa”. A quasi dieci anni dall’inizio di una crisi epocale che ha messo in ginocchio il tessuto delle Pmi lombarde, quanto e come si è ridimensionato il ruolo della Lombardia a livello italiano ed europeo?

In realtà l’importanza della Lombardia si è marcatamente accentuata nel contesto italiano. Stiamo attenti a non fare confusione e a distinguere tra come è cambiato il ruolo della Lombardia in Italia e come è cambiato il ruolo della Lombardia in Europa: il livello di relativa competitività della Lombardia è cresciuto negli ultimi anni rispetto alle altre regioni italiane, che hanno sentito ancora di più la crisi e che avevano  e hanno meno solidità e capacità di resistervi; ma è anche vero – questo sì – che il ruolo della Lombardia negli ultimi anni si è ridimensionato rispetto alle più competitive regioni europee. La Lombardia è peggiorata, e lo si vede chiaramente dal confronto con il resto d’Europa, ma le altre regioni italiane sono peggiorate ancora di più, per cui in senso relativo la posizione della Lombardia nel nostro Paese è salita. Diciamo che la Lombardia ha vissuto una sorta di ‘biforcazione’ – con un’importanza economica e strategica che è andata ulteriormente crescendo in Italia ma che è scesa ad un più ampio livello in Europa. E la ‘biforcazione’ è anche un’altra: da un lato molte parti del tessuto industriale lombardo si sono impoverite, dall’altro sono cresciute negli ultimi anni alcune vere e proprie eccellenze lombarde inserite nella globalizzazione ad ogni livello.

Se guardiamo alle imprese lombarde che hanno resistito e che stanno resistendo, che lezione ne possiamo trarre? Nella selezione darwiniana che ha falcidiato la varietà ecosistemica delle Pmi quali caratteristiche e quali modalità adattative hanno consentito a chi è rimasto in piedi di sopravvivere?

La caratteristica essenziale di chi ha resistito e resiste alla crisi è una: aver avuto e avere la capacità di rispondere ad un mondo aperto con altrettanta apertura. È questa la lezione che possiamo e dobbiamo trarre dalla crisi: è sopravvissuto e sopravvive chi è in grado potenziare l’innovazione di prodotto e il grado di apertura e scambio con altri mercati, chi è in grado di specializzarsi sul piano tecnico ma allo stesso tempo dotandosi di competenze umane in grado di veicolare il prodotto lungo le reti della globalizzazione, oltre il proprio mercato locale.

In una situazione complessa come quella attuale è difficile pensare a un un unico “colpevole” ed è arduo immaginare un’unica via d’uscita dalla crisi con un unico soggetto in grado di imprimere un cambiamento decisivo di direzione. Se è vero – come si suol dire – che ognuno deve fare la sua parte, qual è la parte della politica lombarda e nazionale (nell’aiuto alle imprese) è qual è la parte delle associazioni di categoria come Cna (nel fare rete, nel fare consulenza e nel fare lobbying)?

Oggi la politica può e deve, innanzitutto: semplificare il contesto burocratico, alleggerire il carico fiscale e dedicare in modo selettivo le risorse, ad ogni livello, alla costruzione di filiere eccellenti in grado di trainare il tessuto imprenditoriale. Le organizzazioni di rappresentanza devono accompagnare l’azione della politica con un costante monitoraggio dell’ambiente imprenditoriale e suscitare reti e relazioni tra imprese e stakeholder, istituzionali e non, continuando in ogni caso a fotografare di volta in volta i limiti del sistema amministrativo.

L’Italia ha oggi un livello di pressione fiscale insostenibile per le imprese (secondo il politologo Luigi Marco Bassani si tratterebbe addirittura del livello effettivo di tassazione più alto nella storia dell’umanità).  In questo scenario di “dittatura delle tasse” c’è chi propone la “resistenza fiscale” o “sciopero fiscale”, e ci sono anche consulenti e avvocati che hanno stilato dei vademecum (dall’intestazione a terzi di tutti i propri beni a soluzioni più complesse e più “raffinate”) che consenteribbero di non pagare le tasse dichiarandolo apertamente. Qual è la tua opinione su queste proposte? Hanno in qualche modo un senso o sono solo l’espressione più “folkloristica” di un malcontento diffuso?

Sono reazioni comprensibili, normali e fisiologiche in un ambiente fiscalmente poco amichevole come quello italiano. Ma è chiaro che non rappresentano nessuna possibile soluzione: il problema va risolto alla radice, ossia costruendo un’azione combinata di contenimento dell’evasione fiscale e di riduzione della pressione fiscale. A ogni livello.



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