Intervista a Lorenzo Magnolfi, Assistant Professor of Economics – University of Wisconsin – Madison
Prato – storicamente uno dei più importanti centri tessile-moda europei – conta oggi oltre 16.000 cinesi residenti regolarmente censiti (ma se ne stimano molti di più, considerando anche gli irregolari), mentre nel 1990 – di cinesi residenti – ce n’erano 169. Salvo rari casi, costoro non sono diventati dipendenti di imprese con titolare italiano ma hanno costruito un tessuto di piccole e medie imprese del settore tessile, nei comparti della maglieria e della confezione pronto moda o come imprese terziste per attività di confezione e fornitura. Il fenomeno è noto, e in proposito si possono consultare i dati forniti dall’Unione Industriale Pratese e dall’Istituto Iris. Quello che è interessante cercare di capire è perché i cinesi hanno scelto proprio il distretto tessile di Prato anziché altri centri (per esempio Como). Che ipotesi si possono fare?
I cinesi a Prato (e nel Nord della Toscana) hanno trovato terreno fertile fin dalla fine degli anni ’80, con un tessuto produttivo di piccole imprese operanti in settori tradizionali (tessile e pelletteria), pronte ad acquistare da subfornitori a basso costo. Gli immigrati cinesi si sono quindi inseriti inizialmente svolgendo con loro micro-imprese fasi delle lavorazioni dei tessuti (o dei filati) e delle pelli, in particolare parti del processo produttivo che richiedono alta intensità di lavoro, e condizioni lavorative difficili. Questi nuclei iniziali sono poi cresciuti organicamente nei decenni successivi, come spesso accade per le comunità cinesi d’oltremare. A Prato, i cinesi si sono gradualmente mossi dall’essere subfornitori di aziende italiane (nel frattempo diminuite di numero) a crescere in settori, come il pronto moda, non centrali nella tradizionale struttura del distretto.
Non conosco bene il distretto di Como, ma credo che le aziende comasche siano sempre state caratterizzate da una minore frammentazione della produzione rispetto alle aziende pratesi, tradizionalmente organizzate intorno ad un “impannatore” che appaltava le varie fasi della lavorazione. Una organizzazione aziendale maggiormente integrata ha probabilmente offerto meno opportunita’ di inserirsi alle micro-aziende cinesi che hanno caratterizzato la prima fase della migrazione.
Il fenomeno del tessile cinese di Prato è considerato generalmente in termini molto negativi dall’opinione pubblica italiana. Si pensa soprattutto a una Prato “invasa” da cinesi che non rispettano le leggi italiane e che segnano una decadenza rispetto ai tempi d’oro del tessile pratese, secondo un punto di vista – avvalorato peraltro da molti casi di cronaca – che è stato celebrato da Edoardo Nesi nel romanzo Premio Strega 2011 “Storia della mia gente”. D’altro canto tra il 2000 e il 2013 il numero delle imprese tessili di Prato si è praticamente dimezzato, e gli imprenditori cinesi stanno parzialmente riempiendo un vuoto, creando in prospettiva opportunità anche per gli italiani: secondo i dati dell’Istituto Iris tra l’ottobre del 2010 e il giugno del 2015 sono 355 i lavoratori italiani assunti da cinesi a Prato e Provincia, pari al 19% del totale degli avviamenti nello stesso periodo. Considerando nel complesso la questione del tessile cinese di Prato, bilanciando tutti gli aspetti in gioco, che tipo di valutazione possiamo dare?
Il settore tessile a Prato è oggi fortemente ridimensionato rispetto al picco dell’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso. Le cause sono per lo più fattori di lungo periodo, caratteristiche innate del distretto che i pratesi non sono riusciti a superare, e che si sono rivelate nodi irrisolvibili nell’economia del 21esimo secolo. Il contemporaneo emergere del “distretto parallelo” cinese è sicuramente più un effetto che una causa del generale declino del settore. Infatti, sebbene in alcune subforniture le aziende cinesi di prato possono aver fatto concorrenza ad imprese pre-esistenti, l’effetto di questa concorrenza sull’intero settore è stato nullo se non positivo. In realtà le imprese italiane hanno dovuto confrontarsi con una domanda debole e volatile e con l’apertura dei mercati a nuovi partecipanti, fattori che ben poco hanno a che vedere con la comunità cinese di Prato.
Ad oggi le aziende cinesi a Prato rappresentano probabilmente una delle componenti più dinamiche dell’economia della città. Sono aziende che produconno a costi molto bassi, “leggere”, spesso basate sul lavoro molto intenso di nuclei familiari estesi, operando spesso ai confini delle normativa, e che puntano con aggressività all’export (in mercati dell’Est Europa e non solo). Queste aziende hanno rilevato una buona parte del capitale (macchinari e immobili) di aziende defunte, e senza di loro la città avrebbe subito un terribile “effetto Detroit”.
Prato è la città italiana con la percentuale più alta di residenti stranieri: il 15%, contro una media italiana del 7,5%. Al di là del caso specifico del tessile, il “caso Prato” può essere visto come sintomo di una decadenza o come laboratorio per un’Italia futura più multietnica e più integrata?
L’alta percentuale di residenti stranieri in città per ora si manifesta sopratutto come degrado e disagi per i cittadini, che in gran maggioranza hanno visto diminuire la propria qualita’ della vita. Credo però che l’effetto generale dell’immigrazione dipenda in larga parte dagli incentivi che sapremo dare ai nuovi residenti. Se la città (e in generale il Paese) riesce a dare il messaggio che la nostra è una società dove studiando, lavorando e investendo si può stare molto bene, e che non c’è spazio per chi delinque, non rispetta le regole e crea problemi agli altri, questi nuovi residenti saranno una grande ricchezza.
I cittadini cinesi in particolare spesso portano con sè una gran voglia di fare impresa e valori di dedizione al lavoro oggi sconosciuti a molti italiani. Se troveranno un ambiente che permette loro di lavorare e di produrre nelle regole, possono fare molto bene a sè e alla città. Se al contrario continueremo a dare un’immagine della città (e dell’Italia) come Paese dove il lavoro non porta alla prosperità, le regole valgono solo per gli stupidi e la legalità non conta, i nuovi residenti finiranno per aggravare i nostri mali.
Il fatto che gli imprenditori cinesi di Prato siano riusciti a creare un distretto produttivo di successo, e che siano riusciti a farlo anche in virtù di un atteggiamento “disinvolto” nei confronti di leggi e regolamenti, può essere interpretato anche come segnale di un’insostenibilità per le imprese del modello giuridico e fiscale italiano? In Italia si può essere competitivi rispettando al 100% leggi e norme?
Il caso di queste imprese cinesi è secondo me interessante perchè propone spunti di riflessione sull’apparato produttivo italiano, partendo dalla storia economica del dopoguerra. Dopo la spirale di crescita del costo del lavoro iniziata negli anni ’70, in parte fisiologica e in parte patololgica (e causata da inefficienza e peso del settore pubblico), il Paese aveva reagito con periodiche svalutazioni, che rendevano artificialmente competitivo l’export, al prezzo di import più cari. Invece di fare i compiti a casa, studiare, investire e lavorare meglio, riflettendo l’aumento nel costo del lavoro, riuscivamo a stare sui mercati internazionali “tassando” il resto del Paese tramite un aumento del costo delle importazioni. Questo ci teneva a galla per un periodo, ma rimandava sempre la resa dei conti col fatto che non si può essere un Paese ad alto costo del lavoro senza avere alta produttività.
Con l’entrata nell’Euro, venti anni fa facemmo una scommessa sul futuro del Paese. La logica dell’entrata nell’Euro era di abbandonare per sempre l’arma a doppio taglio delle svalutazioni competitive, e iniziare un percorso di investimenti e specializzazione che avrebbe portato l’Italia ad avere un apparato produttivo avanzato, capace di produrre elevato valore aggiunto. In sostanza dovevamo imparare a lavorare meglio. Questa trasformazione non si è verificata, escluse poche punte di eccellenza che tuttavia non rappresentano il sistema. Ci ritroviamo quindi nella disastrosa posizione di essere un paese dove produrre costa molto, ma con bassa produttività. Ancora per usare una descrizione brutale dell’aggregato, lavoriamo poco e male.
Le imprese cinesi mostrano con la loro vitalità che un modo di fare impresa oggi in italia è quello di convivere con la bassa produttività e abbassare i costi. Lo fanno in primo luogo lavorando di più e più a lungo, ma spesso purtroppo anche aggirando o contravvenendo a norme (specialmente sul lavoro). Si può avere un approccio puramente repressivo a questo fenomeno, far rispettare ogni regola del corrente ordinamento e far chiudere queste aziende. Oppure si può cominciare una riflessione sui costi imposti dalla normativa e sulla loro compatibilità con i fondamentali economici del paese in termini di produttività e stock di capitale fisico e umano. Il dilemma, difficile ma non eludibile, che si pone agli italiani per il futuro è in fondo questo: o continuare a lavorare come lavoriamo, nei settori industriali dove le nostre imprese sono presenti, oberati da uno stato spesso inetto, ma lavorare duro come i cinesi scordandosi vacanze, tutele e diritti, oppure fare veramente un salto di qualità e lavorare meglio, in modo più intelligente, in imprese che investono e innovano, con uno Stato leggero che aiuta l’apparato produttivo.