Tra online e cartaceo. Presente e futuro del giornalismo in Italia

Giornalismo in Italia: tra online e cartaceo

Intervista a Giovanni Sallusti, giornalista professionista (Il Giornale, Libero, L’intraprendente), consulente per la comunicazione politica (Fucina Liberale) e spin doctor.

A cura di Luigi Torriani

Dal punto di vista economico il giornalismo italiano sta attraversando una situazione molto difficile. I giornali cartacei vendono sempre di meno, raccolgono sempre meno pubblicità e hanno spesso una struttura redazionale sovradeterminata. D’altro canto i quotidiani online stentano a proporsi come alternativa economicamente sostenibile: costano molto meno rispetto ai giornali cartacei ma raccolgono anche poco. Offrire contenuti a pagamento sul web è molto difficile perché sono poche le persone disposte a pagare per contenuti digitali, la pubblicità online è proponibile solo se low cost, banner e video che interrompono la lettura fanno scappare gli utenti, e la concorrenza è sterminata e include anche blog e profili social di milioni di utenti che non scrivono per guadagnare ma che di fatto “saturano” l’offerta di opinioni e contenuti sul web. Quale può essere la strada da percorrere per rendere redditizio il giornalismo online?

La diagnosi è esattamente questa, io la semplifico nella metafora del limbo. Siamo effettivamente in una terra di mezzo nel mondo del giornalismo, sospesi tra due mondi ugualmente traballanti, anche se per motivi diversi e quasi opposti. Il giornale cartaceo come oggetto e, cosa ancora più importante, come azienda (i giornali sono anzitutto aziende, anche se molti miei colleghi preferiscono dimenticarselo e involversi in una tragicomica retorica sulla purezza del mestiere) non sta più tecnicamente in piedi. È completamente obsoleto ormai non solo dal punto di vista dei tempi della notizia, ma anche di quelli del commento. Le notizie accadono e vengono commentate in diretta, sui social network, da parte degli stessi protagonisti. Una dinamica iperaccelerata che ha tagliato fuori perfino le agenzie stampa, figuriamoci i giornali cartacei. I quali sono irrimediabilmente anacronistici anche dal punto di vista della struttura interna. Una divisione e settorializzazione del lavoro che non ha più alcun senso, una logica taylorista nell’era degli Zuckerberg e dei Jobs, l’era della sintesi e delle piattaforme multiple, che è puro antiquariato, con relativa moltiplicazione dei costi a bilancio. Una catena di comando sfilacciata e farraginosa, che rimanda più al mondo della burocrazia ministeriale che a quello dei fatti e del loro racconto, quando oggi per pubblicare una notizia basta un clic. Ultimo, ma non meno grave, un tasso di autoreferenzialità che ha del ridicolo per quanto è arrogantemente fuori tempo massimo. C’è ancora qualcuno che crede seriamente che una notizia non è stata data se non è uscita sul Corriere della Sera, nonostante magari rimbalzi su Facebook da settimane. Sono come i giapponesi che s’illudevano di continuare la guerra nelle foreste dopo il 1945.

D’altro canto, è altrettanto vero che oggi i giornali online non posseggono un modello di business in grado di farli crescere, o anche solo di stazionare stabilmente sul mercato. La via dei contenuti a pagamento, che alcuni stanno pure tentando, a mio giudizio è distonica rispetto al mezzo. L’utente internet percepisce la rete come grande serbatoio di contenuti a cui avere liberamente accesso, c’è un nesso anche filosofico tra il web e la democratizzazione radicale delle informazioni, da cui trovo molto difficile tornare indietro. Credo che oggi i giornali online possano reggersi economicamente in modo accettabile soltanto in due casi. Il primo è quello del giornale d’opinione puro, direi dello strumento di lobbing (in Italia è una parolaccia, lo so, ma è l’attività che connota le grandi democrazie avanzate anglosassoni): un organo che su alcuni temi faccia una scelta di campo netta, dichiarata, che rappresenti e perfino rivendichi certe idee e certi interessi (nulla di male, le idee per realizzarsi devono camminare su gambe e teste) e che quindi si rivolga non a sostenitori o inserzionisti generici, ma ai soggetti interessati alla difesa e all’avanzamento delle battaglie che qualificano il giornale. Il secondo caso contempla una presa di coscienza, un colpo di reni dei colossi dell’editoria, come sta avvenendo negli Stati Uniti: la dismissione dell’investimento palesemente a perdere sul cartaceo e la riconversione massiccia sull’online. Lo hanno fatto appunto alcune grosse testate americane, che si sono trascinate il brand e lo storico sulla nuova piattaforma. A quel punto hai il prestigio e la massa critica del vecchio mondo, con i costi contenuti del nuovo, e l’operazione può stare in piedi anche economicamente. Attenzione, non parlo del banale sito replicante del cartaceo, che è quello che fanno tutti i giornali italiani. Parlo della sostituzione integrale del vecchio linguaggio col nuovo, della fine di un equivoco. Ma un passaggio del genere implica un cambio di paradigma culturale coraggioso e difficile, specie in Europa, specie in Italia. Possiamo sperare con moderato ottimismo che, come avviene spesso, i fenomeni innovativi arrivino al di qua dell’Atlantico con una decina d’anni di ritardo.

 

A molti il giornalismo italiano e all’italiana non piace. Questo aspetto ha pesato e pesa sull’andamento economico del comparto? C’è da parte dei giornalisti la necessità di un’autocritica? Ovvero: la crisi del giornalismo italiano è legata a dinamiche puramente economiche o c’è anche un problema di strategia e di contenuti? Si può fare di più e di meglio sul piano dell’offerta per riavvicinare i lettori? Il problema sembra essere particolarmente significativo nel caso dei quotidiani online, che sono “obbligati” a fare articoli brevi e ad evitare approfondimenti perché sul web sono in pochi a leggere per intero articoli che superano le 3.000 o al massimo le 4.000 battute. È possibile – e come – conciliare l’estrema sintesi richiesta dal web con la qualità dei contenuti?

L’esercizio dell’autocritica credo faccia bene in assoluto, figuriamoci in un mondo autoreferenziale come quello dei giornalisti. La falla principale del giornalismo italiano è l’ipocrisia del falso obiettivismo. Parliamoci chiaro: in Italia, per una serie di condizionamenti culturali che io credo si sintetizzino in un rapporto non risolto con l’economia di mercato, è strutturalmente impossibile che esistano editori puri. Ogni gruppo editoriale è nello stesso tempo un gruppo di interessi, quindi ogni giornale è uno sguardo orientato sul mondo, non una fotografia esterna di esso, e io dico che questo è perfino un bene. Pluralismo dei punti di vista, competizione delle idee, varietà dell’offerta. Il problema è che spesso gli operatori dell’informazione negano questa banale realtà empirica, e pretendono di venderti il loro racconto di un fenomeno come il racconto obiettivo. Salvo poi incappare in topiche clamorose, vedi recentemente i casi della Brexit e della vittoria di Trump in America. Forse mai come in questi due casi è emerso chiaramente come i pregiudizi che dominano e orientano la narrazione egemone nei media nostrani abbiano impedito ai presunti professionisti “obiettivi” di raccontare la realtà, di avere un rapporto minimamente onesto con essa. La Brexit e Trump rappresentano probabilmente il più spettacolare caso di perdita verticale di credibilità di un’intera categoria. Peraltro, la spiegazione media che il giornalista ha escogitato a posteriori per giustificare la topica (colpa degli inglesi rozzi delle campagne e dei cowboy dell’America profonda la cui ignoranza li ha addirittura fatti votare a prescindere dai nostri editoriali) ha aggravato la situazione. Guardacaso, le poche eccezioni si sono viste fuori dai grandi gruppi editoriali, nel magma del web (Dagospia e nel suo piccolo mi permetto di dire L’Intraprendente hanno da subito provato a far notare che forse Trump stava intercettando un sommovimento profondo della società americana un po’ più complesso del rutto populista). Servirebbe insomma un grande atto d’onestà collettiva, nel mondo del giornalismo. Dichiariamo ciascuno il nostro punto di vista, e poi partecipiamo a quel grande gioco del confronto/scontro di punti di vista che in fondo si chiama mercato, con il lettore/cliente come unico insindacabile giudice.

 

Secondo alcuni analisti in un futuro prossimo – sul medio-lungo termine, non esisteranno più i giornali cartacei, secondo altri ci sarà una compresenza tra quotidiani web popolari e quotidiani e riviste cartacei di alta qualità, ad alto prezzo e destinati a un pubblico di livello. Qual è la tua opinione in proposito?

I giornali cartacei come li conosciamo non esisteranno più, perché anche in un Paese iperconservativo e ingessato come il nostro il mercato nel medio termine tende per fortuna a imporre la sua logica. I cartacei attuali non stanno in piedi (o peggio in alcuni casi stanno in piedi con i soldi del contribuente, prefigurando peraltro un palese caso di concorrenza sleale), quindi i cartacei così come esistono oggi non esisteranno più. Non credo all’esplosione delle riviste cartacee di approfondimento: esisteranno, ma saranno come oggi una nicchia, seppur in espansione a causa del fronte lasciato scoperto dai quotidiani tradizionali. Credo di più invece alle multipiattaforme comunicative come possibile bussola per il futuro. Penso a situazioni ibride, contaminate, certo popolari ma anzitutto pop, in grado di frequentare l’intero spettro dei nuovi linguaggi. Una sorta di “multitestata”, che magari parta da un blog o comunque da un sito tradizionale, ma che poi abbia una sua interfaccia Facebook distinta e autonoma per contenuti, una sua interfaccia Instagram per il pubblico del mordi e fuggi tendenzialmente giovanile, una sua interfaccia Twitter per il pubblico del dibattito e degli addetti ai lavori, un canale video proprio su Youtube con dei format “televisivi” propri, e magari uno speciale cartaceo mensile con il meglio della produzione impaginato e approfondito. Attenzione, non mi riferisco alla replica dello stesso contenuto sui vari contenitori, che è l’errore grammaticale a cui oggi si condannano anche molti giornali online, ma all’adeguamento del singolo contenuto al singolo contenitore. Un’operazione che potrebbe garantire la moltiplicazione del target, sia in termini di lettorato che in termini pubblicitari. Ma che da un punto di vista professionale, inutile nascondercelo, implica la scomparsa del giornalista come figura lavorativa specifica, e la sua sostituzione con una sorta di “comunicatore” eclettico e perennemente connesso. Al limite, ciascuno di noi potrebbe in potenza diventare giornalista di se stesso. Il che per un liberale che ama la polifonia, la rigogliosità del mercato e la concorrenza al rialzo che ne discende non sarebbe affatto male.



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