Pressione fiscale e Pmi in Italia

Intervista a Stefano Giannobi

A cura di Luigi Torriani

STEFANO GIANNOBI, socio dello Studio Borgonovo Cairoli e Associati di Monza, realtà specializzata nella consulenza societaria in materia fiscale e tributaria, e nell’assistenza alle aziende del territorio lombardo.

 

Nel 1980 la pressione fiscale in Italia era al 31,4% (dati Istat), oggi è al 43,4%, ed è in realtà sopra al 50% se si considera il costo della burocrazia. Come si può continuare a fare impresa in modo competitivo nel Paese con la pressione fiscale effettiva più alta del mondo? Com’è stato possibile arrivare fino a questo punto, chi sono i responsabili che ci hanno portato sull’orlo del baratro e che cosa possiamo fare per invertire la rotta?

La “pressione fiscale” rappresenta il costo dello Stato, ed è espresso attraverso il rapporto tra tributi e contributi previdenziali rispetto al prodotto interno lordo, cioè l’insieme dei beni e dei servizi prodotti in un certo anno, valutati a prezzi correnti.

Il rapporto non fornisce, peraltro, alcuna indicazione sulla qualità e quantità dei servizi pubblici forniti a fronte dei tributi: pertanto, una pressione fiscale elevata può essere socialmente accettabile, se a fronte di essa i cittadini avvertono di ricevere servizi adeguati.

Le discussioni sulla misura della spesa pubblica hanno carattere politico e coinvolgono essenzialmente l’efficienza dei servizi pubblici. Dal punto di vista tecnico, quanto più la spesa pubblica si compone di interessi passivi sul debito pubblico, salari e pensioni (per la quota non coperta attraverso i contributi sociali), tanto più essa corrisponde a “diritti acquisiti” di terzi e può essere considerata una “spesa fissa”. Il che ostacola la realizzazione, nel breve periodo, di programmi economici basati sul simultaneo taglio della spesa pubblica e della tassazione.

L’aumento significativo della pressione fiscale si spiega in larga parte con la forte dinamica del gettito, sostenuta da reiterate e spesso rilevanti manovre di finanza pubblica. Dal 2000 al 2012 le entrate della pubblica amministrazione sono cresciute in termini monetari di oltre 200 miliardi (+41%), guidate soprattutto dall’accentuata dinamica dei contributi sociali (+ 48%), in linea con l’invecchiamento della popolazione e con l’aumento delle aliquote previdenziali. In linea con l’andamento complessivo si sono rivelate le imposte dirette (+41%).

Nelle manovre il fisco ha pesato per il 70%, mentre i tagli alla spesa pubblica (più lunghi e complessi da valutare e attuare) solo per il 30%. La pressione fiscale è diventata il maggior ostacolo alla ripresa della crescita economica.

L’incremento del gettito e la caduta del Pil dal 2009, con l’incremento degli spread, non hanno giovato all’andamento della pressione fiscale, benché nello stesso periodo si siano attuate manovre di contenimento della spesa pubblica dettate anche dalla necessità di rispettare i vincoli di bilancio imposti dall’Europa (parametri di Maastricht e Fiscal Compact).

Solo di recente sono state adottate misure volte a ridurre il cd “cuneo fiscale” per detassare le imprese che impiegano forza lavoro e che impiegano nuovi assunti al fine di ridare ossigeno alle realtà produttive.

 

Si dice spesso che la pressione fiscale in Italia è molto alta perché c’è molta evasione, e che se tutti pagassero le tasse pagheremmo tutti di meno. C’è qualcosa di vero in questo luogo comune o l’affermazione è semplicemente sbagliata?

Esiste anche un altro ritornello, e cioè il “Pagare meno per pagare tutti” attraverso la diminuzione delle aliquote fiscali.

La realtà è più complessa perché se è vero che il mancato recupero di fondi da parte dello Stato, da impiegare nella spesa pubblica oppure nel finanziamento della crescita economica, crea da una parte un potenziale contributo all’eventuale deficit pubblico e quindi alla creazione di debito pubblico, e dall’altra genera mancati interventi di stimolo statale per la crescita economica stessa, è altresì vero che quel che paghiamo di imposte dipende dalla spesa pubblica da finanziare (e dagli interessi da pagare sul debito accumulato con i deficit passati), una grandezza sulla quale nessun governo negli ultimi anni ha ritenuto conveniente intervenire (per non perdere consenso) e che l’illusione del “meno – evasione – meno – pressione fiscale” contribuisce a propagandare come variabile indipendente.

Certamente di fronte all’evasione lo Stato dispone di meno risorse ed è costretto di conseguenza a ridurre la spesa pubblica, con tagli sul finanziamento alla pubblica amministrazione e conseguente possibile diminuzione della qualità dei servizi pubblici offerti e/o aumento della tassazione e del prelievo fiscale sui contribuenti, con effetto di aumento della pressione fiscale o del cuneo fiscale. Ma quel che vessa i cittadini onesti, riduce la crescita e l’occupazione è l’eccessiva pressione fiscale, non già l’evasione fiscale, che non è collegabile alla pressione fiscale né da nessi logici né da evidenze empiriche (ve ne sono altresì di contrarie).

Sia il “Pagare tutti per pagare meno” che il “Pagare meno per pagare tutti” non portano a risultati certi e quantificabili, e per questo il recupero da evasione spesso è una voce critica ovvero non pienamente affidabile all’interno dei piani di risanamento dei conti pubblici da parte dello Stato.

I governi tendono a prendere tutto quello che possono e al tempo stesso a spendere tutto il possibile, così che se tutti i contribuenti iniziassero a pagare le tasse semplicemente non solo gli introiti ma anche le spese del governo aumenterebbero della differenza.

 

Non solo a livello popolare ma anche tra gli imprenditori e gli addetti ai lavori c’è molta irritazione per casi come quello della Apple, che ha goduto negli ultimi anni di una fiscalità agevolata in Irlanda, una pressione fiscale scesa fino allo 0,005% dei profitti fatti nell’Unione Europea. È giusto che un imprenditore italiano debba versare in tasse circa il 50% di quanto guadagna, mentre c’è chi negli ultimi anni ha pagato tasse allo 0,005% anche per profitti realizzati in Italia? È da considerarsi corretto l’intervento della Commissione Europea che ha condannato l’Irlanda e la Apple? Più in generale: che cosa dobbiamo pensare dell’elusione fiscale da parte delle grandi multinazionali nel contesto globalizzato della nostra epoca? Non c’è niente di male o invece è un fenomeno che va condannato e combattuto?

La crescita vertiginosa dei commerci elettronici di beni e servizi nell’ultimo decennio ha reso la normativa fiscale internazionale improvvisamente inadeguata al nuovo contesto economico, e la definizione di Stabile Organizzazione (SO), che collega a uno Stato il reddito che deriva da un’attività economica svolta sul suo territorio da parte di un’impresa non residente, è oggi bisognosa di essere integrata dall’OCSE con interventi mirati alla prevenzione di possibili usi distorti della normativa per scongiurare il perpetrarsi di ipotesi elusive internazionali attuate in special modo dalle multinazionali del Web .

Per le OTT (Over The Top), ovverossia le imprese multinazionali del web (Apple, Google, Amazon, Facebook, Microsoft), risulta abbastanza semplice far risultare il grosso della loro materia imponibile presso giurisdizioni fiscalmente “morbide”, in sfregio a qualunque approccio raccomandato dall’OCSE, approfittando della tipologia operativa naturalmente insita in ogni attività legata alla digital economy.

Le multinazionali del web hanno avuto grande facilità nell’erodere le basi imponibili, trasferire i profitti nei Paesi a più bassa fiscalità e ridurre il carico fiscale complessivo. La pressoché totale dematerializzazione dell’industria digitale, in effetti, consente di evitare di avere una concreta localizzazione fiscale dei profitti conseguiti attraverso una stabile organizzazione, nel territorio dello Stato reale, così permettendo una riduzione di funzioni, beni e rischi, a vantaggio di territori in cui sono vigenti governi fiscali più propensi a contrattare carichi impositivi estremamente bassi (come se già, in partenza, le aliquote applicate non fossero più che allettanti).

Amazon fattura più di cinquanta miliardi di dollari all’anno e ha quattro società in Italia (con oltre novecento dipendenti), le cui quote sono di proprietà, al 100%, della Amazon EU Sarl (holding lussemburghese). Le filiali italiane sarebbero in pratica solo magazzini merce, dove i lavoratori eseguono meri servizi su ordine e conto della Società-Madre lussemburghese, senza il potere di concludere contratti vincolanti per la stessa capogruppo.

Conseguentemente non sarebbe configurabile alcuna SO locale, di guisa che Amazon non versa le imposte in Italia, ma solo in Lussemburgo, nonostante i redditi di fatto prodotti nel nostro Paese

Proprio il caso Amazon ha rappresentato la più che presumibile spinta propulsiva per dare l’avvio all’iter parlamentare di recente intrapreso, riguardante il varo di una nuova espressa normativa interna, atta a configurare le particolari fattispecie di SO legate alla digital economy.

I lavori – tutt’oggi in corso in Commissione Senato – hanno il compito di definire la bozza per l’emanazione del Disegno di Legge A.S. 2526 (“Misure in materia fiscale per la concorrenza nell’economia digitale”, del novembre scorso), nella sua versione conclusiva.

 

Gli albergatori lamentano una concorrenza sleale da parte di Airbnb e i tassisti se la prendono con Uber. Anche in questi casi il nodo è quello delle tasse. Qual è la vostra opinione in proposito?

Dopo l’apparizione di questi nuovi servizi e il boom dei primi anni, sulla scia della novità e della crisi, le associazioni di categoria (albergatori e tassisti) stanno conducendo una dura lotta contro quelli che considerano dei concorrenti sleali.

Il legislatore è intervenuto per definire un nuovo sistema di norme che da un lato assicurino la libertà di iniziativa economica dei privati, ma che dall’altro evitino pratiche sleali di concorrenza sul mercato.

Entrambi i servizi hanno rotto gli equilibri, facendo emergere le crepe di strutture immaginate quando il digitale non esisteva.

UberPop è ormai illegale ovunque. Consentiva a chiunque, con la propria auto e senza alcuna licenza, di accompagnare gli utenti dell’app. Oggi le formule offerte somigliano agli Ncc: tramite Uber, si noleggia un veicolo con autista, scegliendo tra offerte che differiscono in base alla qualità dell’auto.

E’ stata introdotta una ‘tassa Airbnb’, ossia una cedolare secca per le locazioni brevi ‘trattenuta’ già dall’intermediario anche online. L’idea è che gli intermediari immobiliari, anche se gestiscono la locazione attraverso portali online (come Airbnb), operino sui canoni locazione, all’atto dell’accredito, una ritenuta del 21% quali sostituti d’imposta. A loro carico c’è poi il versamento di questa ritenuta all’Erario e l’emissione della certificazione unica per il proprietario.

 

 

 

 



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