Intervista a Elena Tosca
ELENA TOSCA – Docente universitaria e consulente, Elena Tosca dirige il Master MEMA – Meccatronica & Management presso la Liuc Business School ed è titolare del corso di “Gestione delle carriere: ricerca, selezione, coaching e training delle persone” presso la LIUC – Università Cattaneo di Castellanza. È inoltre membro del Comitato Direttivo di AIADS (Associazione Italiana di Analisi Dinamica dei Sistemi), è partner della società di consulenza aziendale Akron Srl, ed è coautrice – per l’editore Franco Angeli – dei libri “Pensiero sistemico & management innovation”, “Il sestante delle organizzazioni vincenti”, “Alla base dei risultati”, “Come costruire il futuro dell’impresa”.
Modelli di business e modelli di management: che cosa è più importante per un’azienda? Contano di più la qualità e competitività dei prodotti o i sistemi di gestione e le scelte manageriali?
Non è tanto una questione di “più l’uno o più l’altro” elemento, quanto piuttosto di trovare un giusto equilibrio e una coerenza tra i due aspetti.
Avere delle fantastiche strategie per sviluppare il proprio business e realizzare valore per tutti gli stakeholder, senza però avere chiari e coerenti riferimenti su cui basare le proprie scelte e comportamenti quotidiani (dai processi decisionali ai processi di gestione delle persone, dalla modalità di definizione degli obiettivi ai sistemi di gestione delle informazioni, …) equivale a costruire un castello senza fondamenta. Viceversa, definire un modello di management senza un chiaro modello di business, equivale a fare un esercizio puramente teorico e didattico, perché viene a mancare la definizione dell’ambito di applicazione e del contesto reale nel quale inserirlo.
Solitamente si tende a dare maggior peso al modello di business, che viene visto come l’elemento determinante della posizione competitiva di un’azienda. Nel modello di business ricadono infatti tutte le decisioni relative alla definizione del sistema prodotto/servizio/mercato, ovvero – e in sintesi: dove e come competere. È abbastanza naturale che ci si concentri particolarmente su questi aspetti. Ma è facile diventare miopi se non si considera anche il modello di management. Una scelta strategica relativa al modello di business deve essere accompagnata da una riflessione, altrettanto attenta, riguardo all’insieme delle scelte inerenti alle persone e all’organizzazione.
In pratica, quello che deve essere considerato è l’intero sistema di business. Solo se vi sarà coerenza all’interno di questo sistema sarà possibile creare un futuro sostenibile per l’organizzazione.
I concetti di management e di leadership si sono evoluti negli anni, e dirigenti e manager si trovano oggi a dover gestire criticità inedite, in un contesto caratterizzato da livelli crescenti di complessità e di competizione. Nei tuoi libri si parla a questo proposito di “Learning Organization” e di “Management 3.0”. Puoi spiegarci il significato di queste espressioni? Quali sono le caratteristiche che un buon manager oggi deve avere, e quali sono le differenze tra il Management Model novecentesco e quello attuale?
Farei una premessa che ci aiuta a capire il contesto. Oggi si sente spesso utilizzare un termine, VUCA, che è l’acronimo di Volatility, Uncertainty, Complexity e Ambiguity (volatilità, incertezza, complessità, ambiguità). Questo termine deriva dal vocabolario militare e fu usato per la prima volta da una scuola militare americana, la U.S. Army War College, alla fine degli anni ’80, per sintetizzare i cambiamenti che la Guerra Fredda aveva portato nelle dinamiche geopolitiche.
Dal mondo militare è stato poi trasferito al mondo del business, perché il contesto competitivo (economico e sociale) è sicuramente caratterizzato – oggi – da questi elementi.
Volatilità: i cambiamenti ci sono sempre stati ma oggi il tasso di cambiamento è sicuramente più accelerato rispetto al passato, sia per frequenza che per ampiezza dei cambiamenti stessi.
Incertezza: è sempre più difficile poter prevedere gli sviluppi futuri delle situazioni.
Complessità: vi sono sempre più fattori da considerare nel prendere le decisioni e fare delle scelte, tanto più nel momento in cui cause ed effetti sono lontani nel tempo e nello spazio.
Ambiguità: gli eventi e i fenomeni possono avere diverse interpretazioni, non esiste più “la” risposta giusta, esistono diverse possibili risposte, dipende dal momento e dal contesto.
Con questi presupposti, le aziende devono attrezzarsi, principalmente da un punto di vista culturale, per soddisfare le richieste di flessibilità, adattabilità e agilità derivanti da questo mondo VUCA nel quale ci troviamo ad operare.
I modelli di business, così come i modelli di management, devono inevitabilmente modificarsi per soddisfare questi requisiti.
Cosa vuol dire? Vuol dire che sistemi e capacità di apprendimento devono diventare sempre più diffusi. I problemi, infatti, sono sempre più complessi e le decisioni hanno assunto un carattere sempre più sistemico: non possiamo più basarci solo sull’esperienza e le competenze del singolo, l’ambito di riferimento non può più essere il mio “orticello”, l’analisi delle conseguenze non si può più fermare sull’immediato e su ciò che mi sta immediatamente attorno. Le organizzazioni non possono più adottare un approccio reattivo, vale a dire aspettare che qualcosa si verifichi e poi agire e rispondere. Lo diceva già anni fa l’economista Peter Drucker: “non c’è più posto per nascondersi, non ci sono acque tranquille in cui stare ad aspettare”. Diventa importante saper leggere e interpretare i segnali provenienti sia dall’esterno, sia dall’interno, e tradurli in risposte ed azioni concrete.
Per far questo ogni azienda deve evolversi basandosi su un nuovo paradigma, in cui il concetto di apprendimento organizzativo è l’elemento centrale.
Il tema della Learning Organization non è qualcosa di recente, se ne parla ormai da una trentina d’anni. Diverse sono le definizioni che sono state date. Negli anni ’90 Peter Senge, del MIT School of Management, affermava che le Learning Organization sono
“(…) aziende dove le persone continuano a far crescere la capacità di creare i risultati che desiderano realmente, dove si dà spazio a nuovi modi di pensare, dove le aspirazioni collettive sono lasciate libere e dove le persone apprendono continuamente a vedere l’intero sistema”. Negli ultimi decenni sono stati diversi i contributi (accademici e non) che hanno portato a far evolvere il concetto, mantenendo sempre come elemento centrale il fatto che il successo di un’organizzazione è legato alla capacità delle sue persone di adattarsi ai cambiamenti, diffondendo il più velocemente possibile al suo interno conoscenze e competenze per tradurle rapidamente in azioni. Appare subito evidente che il concetto di apprendimento organizzativo (e di organizzazione che apprende) si lega in modo imprescindibile al modello di management. Sono infatti le politiche di gestione, di coinvolgimento, di valorizzazione, di sviluppo delle persone, nonché dei processi decisionali, di definizione e condivisione delle strategie che portano l’organizzazione a sviluppare tali condizioni.
Con Vittorio D’Amato, direttore del Centro sul Cambiamento, la Leadership e il People Management della LIUC Business School, nonché Presidente dell’Associazione Italiana di Analisi Dinamica dei Sistemi, negli ultimi anni abbiamo compiuto una serie di ricerche volte a dare una nuova visione del concetto di Learning Organization e di Modello di Management, che è stato chiamato “Management 3.0”.
La Learning Organization di oggi la possiamo definire come un “organismo vivente in continuo divenire, in cui viene dato senso e significato a quello che si fa, dove le persone partecipano attivamente ed incidono sulla creazione di un futuro sostenibile per tutti”.
In questo contesto il management non può più essere improntato sulle “vecchie” logiche che lo vedevano relegato ad un ruolo di coordinamento di risorse e persone per conseguire obiettivi aziendali. Oggi lo scopo del management, quello che D’Amato chiama il Management 3.0, è di fare di tutto per ottenere il meglio dalle persone. La logica si è quindi capovolta. Si parte dalla persona. Per creare le nuove Learning Organization il modello di management si deve evolvere (non è un passaggio istantaneo, bensì una crescita culturale) per arrivare a sposare 6 principi fondamentali:
- è possibile esprimere le proprie qualità personali e il proprio talento
- le persone partecipano alla definizione delle condizioni che determinano la loro associazione all’organizzazione
- il benessere di qualcuno non può avvenire a spese di altri
- le responsabilità sono equamente condivise
- tra le persone esiste un’onestà assoluta
- è possibile incidere sull’evoluzione dell’azienda
Se dovessimo sintetizzare in una tabella le differenze tra il “vecchio” management e il nuovo modello di Management 3.0 potremmo evidenziare quanto segue:
Modello di Management Tradizionale |
Nuovo modello di Management |
Competizione |
Collaborazione |
Carriera verticale |
Carriera obliqua e trasversale |
Individualismo |
Relazione |
Focus su pochi compiti |
Multitasking |
Dire cosa fare |
Dare un senso a quello che viene fatto |
Motivazione estrinseca |
Motivazione intrinseca |
Focus sul breve |
Visione prospettica |
Approccio top-down |
Leadership diffusa |
Ordinare e controllare |
Coinvolgere |
Informazioni limitate |
Informazioni diffuse |
In termini di comportamenti, il Manager 3.0, al fine di permettere alle persone di lavorare al meglio ed essere totalmente engaged, deve:
- Definire con il proprio team di collaboratori quella che viene chiamata “Mappa Strategica”, vale a dire un documento che riassume tutti gli elementi chiave della strategia della propria area (Missione, visione, elementi distintivi, valori o regole d’oro e intenti strategici)
- Ricercare la ragione ultima, senza voler imporre un’idea ma coinvolgendo esperienze e competenze diverse per arrivare alla decisione migliore
- Attivare un dialogo costante con le persone, creando un clima di apertura e di trasparenza
- Preoccuparsi di conoscere i bisogni delle persone e cercare, se possibile, di soddisfarli
- Fornire feedback costanti e tempestivi sull’andamento del lavoro e sul comportamento
- Fare in modo che le persone posseggano le risorse necessarie per poter svolgere il proprio lavoro
- Definire i criteri di valutazione delle prestazioni
- Prendere le decisioni che sono di sua responsabilità
- Fornire sfide e opportunità di crescita a tutti i collaboratori
- Lasciare spazi di azione ai collaboratori, facendo in modo che possano decidere come raggiungere gli obiettivi concordati
- Adottare un sistema premiante che riconosca e valorizzi risultati e comportamenti virtuosi
- Essere sempre curioso e aperto alle novità per includere il nuovo e mettere in discussione lo status quo
- Mantenersi sempre aggiornato
- Avere una buona dose di intelligenza emotiva, riuscendo a gestire le emozioni proprie ed altrui
Nella tua attività di docente universitaria sei in contatto quotidianamente con gli studenti. Quali sono i pregi e i difetti delle nuove generazioni? Possiamo essere ottimisti per il futuro?
L’ottimismo non guasta mai!
Ciò detto, anche se non si deve mai generalizzare (le eccezioni anche in questo caso ci sono), quello che principalmente sembra mancare alle nuove generazioni è un insieme di capacità comportamentali e relazionali, quelle che ricadono nelle cosidette soft skills.
Da un recente lavoro svolto con un gruppo di HR manager, che ho coinvolto proprio per capire cosa possiamo fare, come Università, per migliorare il nostro lavoro di “educatori”, è emerso che ciò che le aziende trovano maggiormente insoddisfacente nei giovani laureati è riscontrabile in alcuni aspetti che vanno dalle capacità comunicative e relazionali, all’eccesso di aspettative, alla scarsa adattabilità e flessibilità.
È vero peraltro che non c’è generazione di adulti che non rimproveri ai giovani la poca voglia di impegnarsi e faticare per ottenere dei risultati, quindi sembra che la storia, anche questa volta, si ripeta.
Ma cosa possiamo fare? Dal canto nostro cerchiamo di lavorare per dare ai giovani sempre maggiori opportunità di parlare in pubblico e di presentare lavori e progetti, in modo che si abituino a rafforzare le loro capacità espositive. Creiamo molte occasioni di incontri con i protagonisti delle aziende affinché i ragazzi abbiano una percezione adeguata di quello che il mondo del lavoro può loro offrire, quali percorsi di carriera, quali opportunità possono cogliere sapendosi muovere nel modo adeguato. Cerchiamo di sviluppare in loro la padronanza personale, la capacità di creare il proprio percorso di crescita, rafforzando la consapevolezza che crescere vuol dire cambiare, sapersi adattare ed essere flessibili.
Nella tua esperienza di consulente e formatrice quali sono gli errori più frequenti che hai avuto modo di riscontrare nelle aziende dal punto di vista della leadership e del management?
Fortunatamente nella mia esperienza consulenziale ho avuto la fortuna, e il piacere, di incontrare ottimi manager e ottimi leader. Distinguo le due figure perché mentre il manager acquisisce questa posizione per collocazione gerarchica all’interno di un organigramma, il leader deve essere riconosciuto come tale dagli altri, e non necessariamente sul piano formale occupa una posizione gerarchica superiore. Una figura che unisce questi due profili è sicuramente una figura completa, che può vantare al tempo stesso autorità e autorevolezza, come leve per arrivare a risultati importanti con il gruppo.
La leadership richiede capacità di visione e di coinvolgimento e non tutti i manager le possiedono. Vi sono manager che non riescono a vedere al di là dell’operatività quotidiana e che si confondono con il proprio ruolo, incapaci di interpretarne lo scopo. Per quanto riguarda lo stile, la difficoltà maggiore riscontrata nei manager è nella capacità di trovare il giusto approccio con i propri collaboratori.C’è chi, per essere accettato e apprezzato, cade nella trappola del rapporto amicale, cercando sempre il consenso, non sapendo dare feedback negativi (per paura di ferire la persona), cercando di accontentare il più possibile i collaboratori nelle loro richieste (focalizzandosi sull’aspetto personale, perdendo di vista l’aspetto aziendale). D’altro canto c’è chi si rifugia in un approccio autoritario (del tipo“si fa così perché l’ho deciso io”), creando in questo modo – tra sé e i propri collaboratori – una barriera che non permette lo scambio, il confronto e la riflessione.
In questo caso sarebbe sbagliato utilizzare il detto “la virtù sta nel mezzo”. Non c’è un “mezzo” in cui stare, c’è da capire il contesto e sapersi comportare nel modo più adeguato alle esigenze dei collaboratori, avendo come obiettivo quello di farli crescere e diventare autonomi.
Non è un mestiere facile, quello del manager. Bisogna essere sensibili, attenti e capire le persone, avendo a cuore la loro crescita, in funzione dei traguardi aziendali che si vogliono conseguire.