ECONOMIA E MORALE. Perché l'Italia è in crisi e cosa si può fare per ripartire”

Economia e Morale. Perché l’Italia è in crisi? Che fare?

Intervista ad Andrea Zhok, Professore Associato di Filosofia Morale all’Università degli Studi di Milano

A cura di Luigi Torriani

La grande crisi iniziata nel 2007 è certamente un fenomeno globale, con poche eccezioni  come Cina e India. Ma tra i grandi dell’economia mondiale l’Italia – stando ai principali indicatori economici – è il Paese che ha perso di più ed è quello che oggi sta facendo più fatica a risollevarsi. Quali sono i fattori alla base di questo primato negativo? Quali sono le responsabilità della classe politica, e quali le responsabilità degli imprenditori? E quale potrebbe essere la strada per tornare a crescere?

Circoscrivendo la risposta al suo nocciolo essenziale direi questo. Schematicamente, nel mondo contemporaneo esistono due modi di competere: abbassando i costi di produzione o aumentando il valore aggiunto della produzione.

La prima forma di competizione tende alla compressione salariale e alla riduzione drastica del mercato interno, mirando a quello estero; nel lungo periodo è un modo di competere difficilmente compatibile con una società democratica moderna.

La seconda forma di competizione richiede iniziative mirate da parte degli stati. I paesi occidentali ad alta industrializzazione come l’Italia hanno ancora un vantaggio comparativo nel percorrere la seconda strada, ma tale vantaggio nel caso italiano continua ad essere eroso dall’inerzia delle classi dirigenti. L’arretramento culturale e la ridotta autorevolezza della classe politica hanno infatti indotto a concentrarsi in sempre maggior misura sul breve termine, sulla gestione delle emergenze, dove si possono incassare rapidamente dividendi elettorali. Lo scarso coraggio (e la scarsa capacità) nel promuovere iniziative di lungo periodo, visioni strategiche di ampio respiro, si è convertito nell’incapacità di proporre strategie indispensabili per un paese moderno: la cura delle infrastrutture (anche tecnologiche, come la banda larga), la proposta di piani industriali articolati, una politica di investimenti (anche pubblici) in settori strategici, e soprattutto la cura della formazione delle nuove generazioni.

Politiche di flessibilizzazione del mercato del lavoro, anche se talvolta utili, rappresentano strategie di retroguardia, roba da anni ’50, su cui non si può contare per un rilancio del paese. Purtroppo la classe politica italiana ha abbracciato una forma di liberalismo di retroguardia che consta essenzialmente in una minimizzazione del ruolo dello stato, che è anche minimizzazione della responsabilità dei politici: le frasette ideologiche intorno al fatto che sarebbero ‘le imprese a creare ricchezza’ nascondono la povertà di iniziativa in politica economica.

La condizione umiliante del settore Ricerca e Sviluppo in Italia è il segno più evidente di questa condizione di minorità. Questa incapacità di pensiero ‘lungo’ in aree che si sa diventeranno cruciali, come il rinnovo delle fonti energetiche, o il confronto con il cambiamento climatico (che ha ripercussioni economiche massicce) si ripercuote in un dibattito interno tutto schiacciato su argomenti industriali di mezzo secolo fa. Non stupisce che, in questa temperie, la nuova ideona delle opposizioni per il rilancio del paese sia diventata l’uscita dall’euro per giovarsi della svalutazione competitiva. Indietro tutta verso gli anni ’70.

In breve: per uscire dal pantano si deve puntare su investimenti infrastrutturali, nella formazione (scientifica, ma culturale in senso complessivo), e nella ricerca, investimenti capaci di vivacizzare l’offerta del prodotto incrementando i margini di guadagno con prodotti innovativi e non facilmente riproducibili. Pensare invece di concorrere a colpi di flessibilità e riduzione salariale in un mondo dove ci sono miliardi di persone disposte a lavorare in condizioni di sostanziale schiavitù è semplicemente un suicidio. Ma naturalmente risultati in quest’ottica si ottengono nel medio termine, e se un politico si aspetta di ottenere risultati spendibili l’anno prossimo, allora non si metterà mai in questa ottica, condannando però con la sua miopia il paese intero.

 

L’evoluzione tecnologica storicamente ha spesso determinato delle criticità sul breve periodo per determinate categorie di lavoratori, ma si è poi rivelata sul medio/lungo termine complessivamente positiva per le società occidentali. Oggi però la rapidità e la pervasività del progresso delle tecnologie è tale da far ipotizzare ad alcuni analisti un cambiamento epocale in un futuro non molto lontano. Se per esempio dovesse essere implementato su larga scala nei prossimi decenni un trasporto su strada a pilota automatico scomparirebbero i camionisti, ma lo stesso si può dire per gli operai (rimpiazzati da robot e macchine), per i giornalisti di cronaca (sostituibili da software), per i medici (in parte sostituibili da programmi in grado di fare le diagnosi), per commercianti e negozianti di ogni genere (sostituiti dall’e-commerce – con un numero molto inferiore di impiegati), e così via all’infinito, praticamente per tutti o per quasi tutti i lavori che oggi conosciamo. In questa formulazione radicale le sembrano ipotesi plausibili o sono solo scenari apocalittici immaginati da persone con una fantasia un po’ troppo fervida? E se questi scenari sono plausibili come passiamo immaginare la vita lavorativa dei nostri figli o nipoti?

In verità la questione dell’automazione è in gran parte un falso problema. Recentemente è ritornato di moda parlare dei problemi generati dalla sostituzione del lavoro umano con quello delle macchine. Sembra sempre si tratti di un’inaudita straordinaria novità, anche se si tratta precisamente del medesimo problema che portò il tessitore inglese John Ludd a distruggere un telaio nel 1779. Il problema, nei suoi tratti di fondo, ha una struttura piuttosto elementare. Ogni qualvolta aumento la produttività (con l’utilizzo di macchine, ma anche altrimenti, ad esempio migliorando l’organizzazione del lavoro) aumento il prodotto per lavoratore impiegato, dunque aumento la ricchezza che ciascun singolo lavoratore ha prodotto. Ciò significa che per produrre le stesse cose ho bisogno di meno persone. Ma questo è solo l’inizio della questione.

L’aumento di produzione, se venduto, significa aumento di ricchezza e questo aumento di ricchezza può prendere, schematicamente, tre strade diverse.

1) Può essere riversato nelle tasche del lavoratore,

2) può essere reinvestito nella produzione, o

3) può finire nelle tasche del proprietario dei mezzi di produzione.

Nel caso 1) abbiamo un aumento del reddito del lavoratore, che tende a spenderlo, ad esempio in beni e servizi accessori. In tal caso (fino al limite di un lavoratore che fosse così ben pagato da cominciare a reinvestire in proprio) si può avere un equilibrato aumento di benessere sociale. Magari meno persone lavoreranno in fabbrica, ma più persone potranno lavorare altrove, nella produzione di beni e servizi accessori, acquistabili con le maggiori risorse disponibili a chi lavora in fabbrica. – In alternativa si possono far lavorare le stesse persone a salario invariato, ma per meno ore.

Nel caso 2), se si reinveste nella produzione, ciò incrementa ancora la produzione complessiva e/o la produttività per unità lavorativa, ma ciò ci rimanda semplicemente al problema di partenza.

Nel caso 3), abbiamo un aumento del reddito del proprietario dei mezzi di produzione. Ma qui sorge un problema: volendo assicurarsi la stabilità a lungo termine del proprio alto tenore di vita, il proprietario accantonerà una parte molto significativa di tale reddito in forma di risparmio/investimento. Ora, per quanto la teoria economica dica che ‘nel lungo periodo’ tutto ciò che viene accantonato come risparmio finirà tendenzialmente per ritornare nella società in forma di investimento (attinto da altri per i loro scopi), questo di fatto non accade. Quanto maggiore il reddito, e quanto maggiore il ‘desiderio di sicurezza’, tanto più il capitale si troverà immobilizzato per lunghi periodi (es.: in acquisizioni immobiliari) o accantonato in forme improduttive (con interessi negativi o nulli). Questo capitale, non ritornando in circolo (esso ha infatti la comprensibile funzione di ‘cuscino di sicurezza’ per il capitalista) genera perciò una carenza di domanda.

Questo e solo questo è il caso davvero problematico. Qui i posti di lavoro ridotti con l’automazione (più in generale con ogni aumento di produttività) non vengono più compensati da posti di lavoro in altri settori, giacché la domanda aggregata diminuisce e non c’è bisogno di rispondere ad una diversa domanda di beni o servizi. Risultato: aumento della disoccupazione, riduzione della crescita potenziale, impoverimento medio della popolazione lavoratrice.

La soluzione sul piano teorico è semplice: non rompere le macchine come John Ludd, né tassarle come propone Bill Gates (perché ciò si limita a ridurne l’impiego, ma non tocca il vero problema, che è generato da qualsiasi aumento di produttività). L’unica soluzione ragionevole sta nel far rientrare forzosamente quel denaro in circolo, il che si può ottenere aumentando il salario per ora lavorata dei lavoratori impiegati e/o tassando e poi redistribuendo gli introiti dei detentori dei mezzi di produzione (individui o corporations che siano).

La soluzione teorica dunque non è difficile. Difficile è imporla politicamente.

 

Si dice spesso che la “bellezza” potrebbe salvare l’Italia e che dovremmo puntare di più sugli eventi culturali anche come veicolo di crescita economica. Eppure i dati sono impietosi, e dalla lirica al teatro alle mostre d’arte al cinema la fredda cronaca ci segnala – più che grandi indotti – gigantesche “voragini” contabili da ripianare con soldi privati o più spesso pubblici. Secondo lei il problema è strutturale e inevitabile o può essere emendato? Ovvero: gli eventi culturali sono intrinsecamente diseconomici e vanno – per così dire – “tollerati” per amore del bello, oppure è possibile far quadrare anche i conti gestendoli in modo diverso?

Alcuni eventi culturali sono intrinsecamente diseconomici, se si vuole renderli accessibili al vasto pubblico. Che uno stato moderno sostenga teatri di prosa e orchestre sinfoniche (magari invece di finanziare quel monstruum culturalmente inutile che è la RAI) è un investimento nel futuro del paese. Per intenderci, la RAI assorbe ogni anno circa un miliardo e mezzo di soldi pubblici, laddove il FUS (Fondo Unico dello Spettacolo) riceve circa 400 milioni di euro (un quarto). Questo per dire che i margini per uno spostamento di spesa pubblica in una direzione più qualificata, in linea con ciò che fanno quasi tutti i maggiori paesi europei (Germania, Francia, Austria, ecc.) ci sarebbero.

Detto questo è però vero che, soprattutto con riferimento alla componente storico-artistica e archeologica, l’Italia soffre anche di un grave sottoutilizzo delle proprie risorse. Qui però la risposta da dare è ben nota, e in alcune parti del paese comincia ad essere adottata. Per capire cosa c’è che non va basta andare a visitare i siti web relativi alla proposta culturale di aree culturalmente ricchissime del nostro paese, dalla Sicilia all’Abruzzo. Paesi che hanno un’offerta infinitamente inferiore alla nostra (es.: Austria o Slovenia) creano, e fanno conoscere via web, reti territoriali tra luoghi degni di visita, percorsi possibili, dove è garantita la disponibilità dei trasporti e dei pernottamenti tra luoghi diversi, ciascuno con qualcosa di bello, sparsi sul territorio. Da noi il turismo funziona, almeno come ritorno economico, solo nei grandi centri dove c’è un’offerta ampia concentrata (Venezia, Roma, Firenze), ma in tutto il resto del territorio i turisti dovrebbero farsi uno studio storico-geografico personale per poter organizzare una vacanza articolata in più tappe. Invece che fare sistema tra piccoli e medi centri, dove magari vale turisticamente la pena di stare una giornata, ma non una settimana, si preferisce una competizione ottusa ed una mancanza di coordinamento che impoverisce tutti.

 

Si parla spesso di “fuga dei cervelli” dall’Italia e di situazione drammatica dell’università e della ricerca nel nostro Paese, tra nepotismo, corruzione, sprechi e disinvestimento sistemico. Si può prendere la cosa con ironia – come nei film di grande successo della serie “Smetto quando voglio” – ma evidentemente il problema è grave, perché tutti i grandi Paesi big dell’economia mondiale investono di più e meglio di noi nella ricerca accademica. Qual è la situazione reale della ricerca oggi in Italia? E quali potrebbero essere le misure politiche per migliorare la situazione?

Questo è un tema drammatico, come notavo in precedenza, e terribilmente sottovalutato. Il problema naturalmente non sta mai nel fatto che ricercatori di un paese vadano all’estero. Questo è normale e utile. Il problema sta nella differenza netta tra uscite ed entrate. L’Italia sta perdendo costantemente decine di migliaia di persone con alte qualifiche senza una simmetrica compensazione con ingressi esteri. È del tutto evidente che le istituzioni di ricerca italiane (pubbliche, ma anche private) non sono attrattive per ricercatori esteri. Per quale ragione? Non certo per la scarsa attrattività del paese. Molto banalmente il problema è che abbiamo infrastrutture (es.: laboratori) scarse e invecchiate, e salari non competitivi. Il problema, spesso sollevato, del nepotismo accademico, è un problema reale, ma di impatto marginale, amplificato mediaticamente. Il problema di fondo è e resta la scarsità delle posizioni disponibili, la loro precarietà, la povertà dei fondi a disposizione. Tra l’altro, in tale quadro restrittivo il nepotismo ha più facilità ad attecchire perché ci si ritrova costantemente in situazioni dove c’è un solo posto a disposizione per molti candidati tutti altamente qualificati per ottenerlo. In queste circostanze, a parità di curricula, diviene decisiva l’opinione insindacabile dei valutatori, il cui potere viene con ciò accresciuto e consolidato, giacché anche quelli molto bravi sanno che avranno bisogno di una ‘buona parola’. In questo senso il peso del nepotismo è alimentato dalla scarsità delle risorse, che resta il primo problema.

Detto questo, è utile ricordare che la produttività scientifica italiana (cioè il rapporto tra denari spesi per la ricerca e produzione scientifica, calcolata in pubblicazioni qualificate) è costantemente oscillante tra il primo e il secondo posto al mondo (ce la giochiamo con la Germania). Dunque tutti i discorsi, che occasionalmente si sentono, intorno alla necessità prima di migliorare la qualità della produzione per poi procedere ad erogare finanziamenti dignitosi è, puramente e semplicemente, una pietosa menzogna.



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