La televisione in Italia. Com’era e com’è oggi
Intervista ad Antonio Lubrano
ANTONIO LUBRANO – Conduttore televisivo, giornalista e scrittore, è entrato nelle case di tutti gli italiani con lo storico programma di Raitre “Mi manda Lubrano”, andato in onda dal 1990 al 1996. È stato autore per il TG2, per i programmi di Rai2 “Mattina in famiglia” e “I fatti vostri” e per il programma di Rai1 “All’Opera”. È stato direttore dalla rivista “TV Sorrisi e Canzoni”, ha collaborato con il settimanale Oggi e scrive sul Corriere della Sera. Ha pubblicato diversi libri, per Mondadori, Guida, Baldini & Castoldi, Sonzogno, San Paolo e per altri importanti editori italiani. Il suo ultimo libro – edito da Castelvecchi e pubblicato nel 2018 – si intitola “L’Italia truccata. Storie assurde, trufferie e amenità di oggi e di ieri”.
Lei è uno dei conduttori televisivi di maggior successo nella storia della televisione italiana. Quali caratteristiche deve avere un buon conduttore televisivo? Chi sono stati i più grandi conduttori nella storia della televisione? E quali sono – invece – gli errori più frequenti nella conduzione di programmi tv?
Le qualità più importanti di un buon conduttore televisivo sono sicuramente la chiarezza e la capacità di comunicare in modo semplice, efficace e diretto. La tv è generalista, la guardano tutti, il pubblico è molto eterogeneo e il conduttore televisivo è apprezzato quando appare come un amico, come uno di famiglia. Bravissimi conduttori sono – per fare un paio di esempi – Piero Angela (e oggi il figlio Alberto) e Enrico Mentana, persone di grande spessore culturale e di grande competenza che riescono al tempo stesso a parlare a tutti, a rendere alla portata di tutti – senza banalizzare – qualsiasi concetto, ad esprimersi sempre in modo diretto, simpatico, leggero, chiaro e brillante. È quello che ho sempre cercato di fare anche io, e ancora oggi molte persone mi fermano per strada e mi dicono: “ho nostalgia dei tempi di ‘Mi manda Lubrano’, il tuo modo di parlare mi faceva sempre sentire come a casa, come in famiglia”. Questo per me è il complimento più bello che un conduttore televisivo può ricevere, e per il conduttore tv vale quello che nel romanzo “Il giovane Holden” di Salinger viene detto a proposito dei libri e degli scrittori: “quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira”. C’è un vecchio motto che recita: “quando parli in televisione immagina che ti stai rivolgendo a un bambino di otto anni che deve capire perfettamente quello che stai dicendo”. Può sembrare eccessivo ma io mi sono sempre ispirato a questa regola base: parlare in modo comprensibile per tutti. E questo non è paternalismo, è rispetto del pubblico.
Dal 1980 al 1990 ho lavorato al TG2. Sono partito dalla redazione cultura, e preparavo servizi di un minuto e mezzo o al massimo due minuti con un linguaggio semplice, leggero, divertente. È andata avanti così per anni, finché un giorno il direttore mi chiama e mi dice: “Lubrano, ho bisogno che passi dalla cultura alla politica perché dobbiamo cambiare il linguaggio dei nostri servizi politici. I nostri redattori politici sanno tutto ma ormai parlano in politichese, sono troppo pesanti per il pubblico. Io voglio uno che non sia esperto di politica e che comunichi in modo semplice e chiaro”. Ho cominciato allora – e sono andato avanti per sette anni – a fare interviste ai politici, e spesso li fermavo e dicevo “onorevole, mi dispiace ma non ho capito niente”. Cercavo sempre di costringere i politici a parlare in modo comprensibile, senza giri di parole e senza ricorrere a espressioni complicate o astruse. Un politico che sapeva come rispondere ai giornalisti era certamente Giulio Andreotti. Nel 1984, ai tempi del dibattito parlamentare sul cosiddetto “scandalo dei petroli”, andai a intervistare Andreotti nel suo studio. A un certo punto, mentre parlavamo, il barbiere della Camera – che si chiamava Saverio – iniziò a radere Andreotti, e lo radeva con un rasoio a serramanico partendo dalla gola. Allora io dissi: “Onorevole Andreotti, immagino che in questo momento i suoi nemici vorrebbero essere al posto di Saverio”. E Andreotti, prontissimo: “Caro Lubrano, io dai miei nemici la barba me la faccio fare col rasoio elettrico”. Quell’intervista fu un successo clamoroso e fu acquistata dalle televisioni di mezzo mondo. Ma non andava mica sempre così: Andreotti era un grande comunicatore, mentre con molti politici dovevo continuamente intervenire per fermare il loro politichese e spingerli dalle loro abituali astrusità linguistiche alla chiarezza.
Quando alla fine degli anni Ottanta curavo la rubrica del TG2 “Diogene” ho contribuito a far salire notevolmente gli ascolti del telegiornale, facendo salire il TG delle ore 13 da 3 milioni e mezzo di ascolti a più di 4 milioni e mezzo. Come facevo? Puntavo sulla semplicità, che in quel programma era diventata una caratteristica anche del mio look: abbandonai la giacca e la cravatta perché volevo essere il più possibile informale, il più possibile vicino alla gente, come una persona di famiglia. Il libro che seguì il successo televisivo di “Diogene” si intitolava “Pronto Diogene”, fu pubblicato da Mondadori ed ebbe un grande successo commerciale perché era un libro di grande leggibilità. Allo stesso modo nel libro “Tranelli d’Italia”, pubblicato da Sonzogno, ho raccontato truffe, scandali e raggiri nel modo più semplice e diretto possibile, e nel mio nuovo libro “l’Italia truccata” ho scelto volutamente – per rendere il testo massimamente fruibile – di dividere il testo stesso in capitoli brevi, ciascuno dedicato a un aneddoto o a paradossi e assurdità di cui ho avuto esperienza nella mia lunga carriera giornalistica.
Mi chiede invece quali sono gli errori più frequenti nella conduzione di programmi tv. Al di là di singoli errori tecnici o imperfezioni, l’errore più grande che può fare un conduttore tv è la perdita dell’umiltà e della capacità di mantenere la misura di se stessi anche quando si è all’apice della carriera e si viene fermati continuamente per strada da persone che chiedono autografi. Se uno si monta la testa e diventa presuntuoso perde la semplicità e la spontaneità nella conduzione, tende a sconfinare e a scavalcare l’ascoltatore, e cessa di essere un bravo conduttore.
Quali sono i passaggi e i momenti più significativi nella storia della televisione italiana? Quali sono i programmi televisivi – di ieri e di oggi – che sono riusciti a conciliare ai massimi livelli qualità e ascolti? Che cosa le piace nella televisione di oggi – rispetto a quella di un tempo – e che cosa non le piace?
Oltre alle trasmissioni di Piero e Alberto Angela e di Enrico Mentana, di cui ho già parlato, vorrei citare – tra i grandi esempi di televisione di qualità: “Non è mai troppo tardi” del maestro Alberto Manzi (1960-1968), il prototipo della tv che è amica delle persone, che è a fianco del cittadino e lo aiuta; “Studio Uno” (1961-1966), esempio insuperato di varietà, con la regia di un fuoriclasse come Antonello Falqui; “Lascia o raddoppia?” (1955-1959), il padre dei programmi televisivi a quiz, condotto da Mike Bongiorno; “Tutto Dante” (2007-2008, 2013, 2015), gli spettacoli di Benigni dedicati alla Divina Commedia, esempi notevoli di un modo di fare cultura senza la puzza sotto il naso e senza la presunzione di chi dice “adesso ti istruisco io”.
Nella televisione di oggi non mi piacciono due cose: l’eccesso di talk show dedicati alla politica e la carenza di programmi – come quelli che facevo io – dedicati ai problemi e ai diritti dei cittadini. I talk show politici sono troppi, ogni canale ha i suoi, e alla lunga si rischia un effetto saturazione. In compenso mancano programmi in prima serata di vero servizio pubblico, impegnati nello smascherare scandali e truffe e vicini ai cittadini e ai loro problemi e diritti. “Mi manda Raitre” c’è ancora ma l’hanno confinato al mattino, mentre “Report” è fatto molto bene ma è un’altra cosa, fa inchieste giornalistiche e non si occupa delle difficoltà quotidiane delle persone. Negli anni Ottanta e Novanta i miei programmi incentrati sulla difesa dei diritti dei consumatori facevano grandi ascolti e univano servizio pubblico e successo commerciale. Oggi programmi di questo tipo non ci sono più, o – se ci sono – non finiscono mai in prima serata. Questo secondo me è un peccato.
Ancora oggi la televisione è un mezzo potente, seguito ogni giorno da milioni di italiani e in grado di generare business importanti, ma il web pone sempre di più alla tv enormi problemi di sopravvivenza e di coesistenza. Com’è oggi il rapporto tra la televisione e internet e come potrebbe essere secondo lei in futuro?
Sono un uomo di televisione, oggi ho 86 anni e francamente non ho mai approfondito adeguatamente il mondo del web e delle nuove rivoluzioni digitali. Mi limito dunque a una sensazione: il web, che ha già tolto milioni di lettori ai giornali, toglierà sempre più spettatori alla televisione. Spero però di sbagliami e auspico che internet e la televisione possano coesistere con reciproco vantaggio.
Da tanti anni si parla della possibilità di privatizzare la Rai, che è oggi sempre di più una struttura elefantiaca e costosa (in Rai ci sono 13mila dipendenti, a Mediaset 4mila). D’altro canto c’è chi pensa che sia importante continuare ad avere una televisione pubblica. Da uomo Rai di lungo corso qual’è la sua opinione in proposito?
Spero che la Rai non venga privatizzata. Mi rendo perfettamente conto che mantenere una tv pubblica ha dei costi, ma credo che sia fondamentale e irrinunciabile consentire agli operatori di avere – almeno formalmente – autonomia e indipendenza. Dico “almeno formalmente” perché so bene che la politica nel senso partitico del termine interviene pesantemente nella Rai, ma il mio auspicio è che la politica intervenga sempre meno, non che si peggiori la situazione – in termini di libertà dei giornalisti – privatizzando. Sono sempre colpito – comunque – quando si parla di dirigenti Rai dicendo che l’uno “è dell’area di centro-sinistra”, l’altro “di centro-destra”, l’altro “5 Stelle”, ecc., e i diretti interessati si lasciano etichettare in questo modo senza dire nulla. Questo ragionamento in termini di aree di influenza applicato alla tv pubblica è considerato normale ma io – personalmente – l’ho sempre trovato deontologicamente inaccettabile. Anche io – come tutti – ho ovviamente delle idee politiche, ma come giornalista della televisione pubblica ho sempre cercato di mantenere autonomia e indipendenza, non ho mai fatto politica in alcun modo.
A partire dal 1986 il successo o insuccesso di un programma tv – e quindi l’andamento dell’intero mercato pubblicitario televisivo – è determinato dal sistema Auditel di rilevamento dei dati di ascolto. Che peso ha nella vita di un conduttore televisivo l’ansia per i dati Auditel?
Ho sempre dormito tranquillamente e non ho mai avuto nessuna ansia da ascolti. È chiaro che la preoccupazione c’è, ma bisogna concentrarsi sul fare bene le cose e non essere ossessionati dall’Auditel. Chi ha l’ansia da ascolti vive male e lavora anche male, perché quando si esagera nel ricercare a tavolino dei modi di fare o dei metodi per catturare più ascoltatori spesso si ottiene l’effetto contrario: si perde spontaneità, si diventa finti e l’ascoltatore se ne accorge e non gradisce. Poi è fondamentale avere pazienza ed essere perseveranti, in televisione come in qualsiasi altro lavoro. I risultati non arrivano immediatamente, ci vuole tempo e bisogna saper aspettare – dopo aver seminato – l’arrivo del momento in cui si potranno raccogliere i frutti. “Mi manda Lubrano”, che nasce da un’idea di Anna Tortora (la sorella di Enzo Tortora), è stato – nel genere delle trasmissioni tv dedicate allo smascheramento delle truffe e alla difesa dei diritti dei cittadini – di gran lunga il più grande successo commerciale nella storia della televisione italiana. Ma attenzione: nel primo anno (1990) non riuscivamo a superare i 2 milioni di spettatori e io ero deluso. Furono Angelo Guglielmi e Dario Fo a dirmi: non preoccuparti, ci vuole tempo, vedrai che dall’anno prossimo decolliamo. E fu così: nel 1991 la trasmissione salì di colpo a 4 milioni di spettatori, e negli anni successivi raggiungemmo poi il record di 6 milioni. Ricevevamo così tante lettere da cittadini che volevano denunciare i loro problemi in trasmissione che avevo dovuto prendere in redazione tre persone che avevano come unico incarico la lettura e la selezione delle lettere. Faccio il giornalista da quando ho 16 anni, oggi ne ho 86 e quando ho raggiunto il grande successo popolare – all’inizio degli anni Novanta – ne avevo 60. La morale di questa storia è che in televisione chi lavora bene ha successo, ma il successo non arriva subito e bisogna sempre lavorare al meglio mantenendo la fiducia nel futuro.