La globalizzazione. Persone e aziende
Intervista a Vittorio Agnoletto
VITTORIO AGNOLETTO – Medico, docente di “Globalizzazione e politiche della salute” presso l’Università degli Studi di Milano, attivista politico (è stato eletto europarlamentare nel 2004 come indipendente nelle liste di Rifondazione Comunista- Sinistra Europea), Vittorio Agnoletto è anche autore di libri di successo, tra i quali ricordiamo: “La società dell’Aids” (Dalai), “Prima persone: le nostre ragioni contro questa globalizzazione” (Laterza), “L’eclisse della democrazia: le verità nascoste sul G8 2001 a Genova” (Feltrinelli), “Aids. Lo scandalo del vaccino italiano” (Feltrinelli), “ Sanità in salute? – Il libro bianco della sanità lombarda” (2017, ed. Radio Popolare, Milano).
Lei è stato uno degli intellettuali padri del Movimento No Global, e nel 2001 – in occasione del G8 di Genova – ha portato al centro dei dibattiti i temi legati a una visione critica della globalizzazione, come portavoce del Genoa Social Forum. Sono passati quasi vent’anni da allora, abbiamo attraversato nel frattempo una delle crisi più gravi nella storia del capitalismo, e ancora oggi – e sempre di più – le opinioni pubbliche si dividono tra chi vede nell’accelerata globalizzazione degli ultimi decenni una grande opportunità per persone e aziende e chi sottolinea invece i problemi e i pericoli. Lei certamente fu ai tempi profetico nel comprendere che lo scontro politico negli anni a venire sarebbe stato focalizzato sul tema della globalizzazione, e il sociologo Luca Ricolfi – nel suo ultimo libro (“Sinistra e popolo” – Longanesi, 2017) – ha scritto che la dicotomia tra destra e sinistra è oggi obsoleta e che la grande polarizzazione è oggi tra global e no global o tra “forze dell’apertura” e “forze della chiusura”. Perché lei si colloca – da sempre – tra i no global? Ovvero: perché secondo lei la globalizzazione – per come si è determinata fino a questo momento – provoca più problemi che vantaggi? E cosa pensa delle risposte antiglobal offerte oggi da partiti appartenenti – nel linguaggio politico tradizionale – alle “destre”, e dunque lontani dal mondo cui lei storicamente appartiene?
Chiariamo subito un punto: in realtà l’espressione “No Global” è una definizione giornalistica che io non ho mai condiviso e che trovo fuorviante. L’espressione corretta per definire la mia visione del mondo (mia e dei movimenti di cui sono stato uno dei leader) è “altermondialismo”, che significa essere non contro la globalizzazione in assoluto ma contro quel tipo di globalizzazione – che semplificando possiamo definire “liberista” – che ha segnato la nostra epoca negli ultimi decenni. Non sono d’accordo con Luca Ricolfi: è semplicistico polarizzare i dibattiti odierni tra “forze dell’apertura” e “forze della chiusura” o tra “Global” e “No Global”. Il problema è di quale forma di apertura e di quale forma di globalizzazione parliamo. La globalizzazione che di fatto caratterizza il mondo odierno non funziona – in estrema sintesi – per tre motivi. Il primo è l’enorme e crescente divaricazione tra i più ricchi e i più poveri: secondo i dati di Credit Suisse (numeri dunque al di sopra di ogni sospetto di partigianeria) oggi l’8% della popolazione detiene oltre l’86% della ricchezza globale e il 79% della popolazione mondiale ha il 2,9% della ricchezza. E questa divaricazione è in crescita, il vertice della piramide si restringe sempre di più, e la globalizzazione – per come si sta delineando – non sta affatto diffondendo il benessere. Il secondo problema è la contrazione del potere politico democratico di fronte al mercato e ai centri di potere finanziari sovranazionali. A decidere delle sorti di nazioni e popolazioni sono oggi fattori esterni alla dialettica politica democratica normale e tradizionale, e questo è stato evidente in Grecia (Paese in cui le pressioni dei mercati hanno imposto misure draconiane e la classe politica non aveva margini decisionali autonomi), ed è evidente anche oggi in Italia. C’è stata una globalizzazione economica e finanziaria ma non c’è stata una globalizzazione politica, e questo ha creato tutta una serie di difficoltà di sistema dalle quali fatichiamo ad uscire. Il problema non sta solo nella riduzione del potere politico dei singoli Stati ma nella riduzione del potere politico in quanto tale. A differenza delle “destre” sovraniste e nazionaliste, che vogliono un mondo basato sulla rigida separazione tra piccole patrie (soluzione che aggraverebbe soltanto la situazione determinando conflitti continui), io non sono contro la globalizzazione in assoluto. Il punto è che se la globalizzazione è soltanto finanziaria e se alla perdita di potere politico negli Stati non corrisponde la costituzione di poteri politici sovranazionali (effettivi, partecipati, elettivi e non eterodiretti dai centri economici), il sistema non sta in piedi. E con questo vengo al terzo problema: alla libera circolazione di merci e capitali non corrisponde una libertà di circolazione delle persone, e manca una riflessione politica seria sul tema delle migrazioni. Negli ultimi anni multinazionali e Stati con il Land Grabbing si sono impossessati di 20 milioni di ettari di terreni in Africa, sostituendo la filiera corta, basata su culture destinate alla necessità delle popolazioni locali, con la produzione, su quegli stessi terreni, di biocombustibili destinati all’esportazione, producendo disoccupazione, povertà e accentuando i fenomeni migratori. Se la globalizzazione resta quella attuale e non diventa anche analisi dei processi migratori ed elaborazione di strategie finalizzate a rimuoverne le cause, l’effetto è la chiusura, il successo dei movimenti più populisti e – in ultima istanza – il tutti contro tutti.
Nel 1989 – quando lavorava come medico del lavoro – lei fu licenziato da una azienda chimica per aver chiesto interventi ambientali per tutelare la salute dei lavoratori. Negli ultimi anni i temi dell’ecologia, della medicina del lavoro e della sicurezza dei lavoratori stanno diventando centrali per le aziende, anche se non sempre è semplice trovare una quadratura e un equilibrio tra le esigenze di business da una parte e la tutela delle persone dall’altra. Cosa pensa del problema della conciliabilità tra lavoro (crescita dell’occupazione) e salute (difesa delle condizioni dei lavoratori)?
Ai tempi del Genoa Social Forum l’economista filippino Walden Bello disse: “se continuiamo con questo modello di sviluppo fondato soltanto sugli idrocarburi e sulla quantità nella produzione, andremo incontro a scompensi e disastri”. La grande sfida oggi è riuscire a trovare un equilibrio tra lavoro e ambiente, ed è una sfida ineludibile perché le risorse non sono infinite. Dal punto di vista ecologico la situazione del pianeta è molto difficile, e siamo arrivati a un punto in cui non è più possibile – a meno di volercene infischiare della sorte dei nostri figli e nipoti – fare scelte economiche senza pensare all’impatto che avranno sulle prossime generazioni. L’obiettivo è la sostenibilità, e per raggiungere questo obiettivo dobbiamo porre al centro la qualità della vita dei 7 miliardi di cittadini del mondo. Non sono parole vuote o retoriche: la priorità oggi è investire nella ricerca scientifica per rendere meno inquinanti le produzioni industriali e per migliorare la situazione ambientale, e sono gli investimenti su questo fronte a dover generare nuova occupazione. In Italia, peraltro, è quanto mai evidente che servirebbe urgentemente un piano nazionale di investimenti per la tutela e l’assestamento del paesaggio. È chiaro che dal punto di vista del business gli obiettivi di cui parlo avranno un ritorno a medio termine, nell’immediato non hanno una convenienza economica pari ai processi speculativi che dominano la vita economica, ma se non ci muoviamo oggi tra qualche anno sarà troppo tardi e i problemi ecologici saranno talmente gravi da pregiudicare fortemente anche l’andamento dell’economia. Sono molto colpito dal fatto che i temi ambientali – che non interessano ai movimenti politici sovranisti oggi di successo – sono considerati marginali anche dai sindacati, che hanno come unica preoccupazione la perdita di posti di lavoro. Questa è un’ottica miope, e che rimane sempre all’interno di una visione che punta allo sfruttamento delle risorse finché durano e non alla lungimirante manutenzione ordinaria e straordinaria del nostro pianeta. Lo stesso discorso vale a proposito della medicina del lavoro. Il medico del lavoro – che occupandosi della tutela della salute dei lavoratori si occupa al tempo stesso della sostenibilità ambientale delle produzioni industriali – è una figura professionale la cui importanza è sottostimata. Negli anni ‘80 il medico del lavoro era convenzionato con le Asl, che esercitavano un controllo sul suo operato. Oggi mancano i soldi, per cui i controlli sono meno e arrivano sempre a posteriori. Il medico del lavoro, come libero professionista pagato dall’azienda, teme ritorsioni e quindi tende spesso – come si suol dire – a chiudere un occhio. Ci sono delle aziende che hanno sede nel Nord Italia e hanno un medico del lavoro che sta in Sicilia: non è difficile immaginare che la presenza operativa di costui sia piuttosto marginale. Questo secondo me è un grosso errore sotto tutti i punti di vista perché anche per gli imprenditori – ragionando sul medio termine e al di là della contabilità immediata – è meglio avere un’azienda nella quale le regole della medicina del lavoro sono rispettate a 360 gradi, migliorando così la situazione ambientale, le condizioni dei lavoratori e quindi – anche se ovviamente non all’istante – anche la produttività stessa.
Lei ha dedicato due libri al tema della ricerca medica sull’Aids, denunciando scandali, opportunismi, irregolarità e manipolazioni. Gli scandali in ambio sanitario e farmaceutico sono considerati particolarmente odiosi dall’opinione pubblica, e giustamente perché si tratta di settori che hanno a che fare direttamente con gli aspetti più delicati della vita delle persone. Oggi al centro del dibattito c’è la questione dei vaccini. Qual’è la sua opinione – da intellettuale e da medico – sul tema “vaccini e interessi economici”?
Con questa domanda lei tocca un tema fondamentale, quello del conflitto d’interessi in ambito sanitario.Quando un medico firma un articolo per una rivista scientifica deve dichiarare con quali aziende collabora, e quindi quali sono i suoi potenziali conflitti d’interessi. In realtà è stato dimostrato che nel mondo in media il 30% delle collaborazioni con aziende non viene dichiarato dai ricercatori medici, e parliamo di collaborazioni a pagamento con soggetti privati, cioè di situazioni che evidentemente possono avere un impatto sui contenuti dell’articolo scientifico. In Italia il 68% delle associazioni che si occupano di malattie e di malati – comprese le associazioni che si pongono esplicitamente in difesa dei cittadini – ricevono fondi da aziende farmaceutiche e sanitarie, e quindi possiamo facilmente intuire come non siano completamente autonome e libere nell’esprimere giudizi. Per entrare in commercio un farmaco o un vaccino deve avere un dossier che viene approvato in Europa dall’EMA(European Medicines Agency) e negli Stati Uniti dall’FDA (Food and Drug Administration). In Europa vale il principio di precauzione (bisogna dimostrare che un farmaco o un vaccino non sono dannosi), mentre negli Usa vale il principio opposto, ovvero un prodotto può essere messo in commercio e resta in commercio se non viene dimostrato che è dannoso. In Europa c’è dunque – sulla carta – una maggiore tutela della salute dei consumatori. Ma il problema è il conflitto d’interessi: l’EMA non ha fondi propri e quindi – di fatto – non può fare ricerche e studi indipendenti.Quando una puntata di Report – tempo fa – pose il problema delle ricerche indipendenti sui vaccini, ci furono molte critiche e minacce di querele e di chiusura della trasmissione, poi tutto svanì nel nulla per una ragione molto semplice: si scoprì che tra i firmatari dell’appello inviato all’EMA per chiedere di indagare sul tema vaccini e possibili effetti collaterali c’era anche il numero uno italiano, Silvio Garattini, che ovviamente non è certo un “No Vax”, ma semplicemente poneva un problema. L’EMA rispose negativamente, adducendo come era prevedibile la questione della mancanza di fondi, ma il governo olandese decise di finanziare una ricerca in Olanda, che è ancora in corso. Il dibattito pubblico tra “vaccinisti” e “antivaccinisti” – per come si è delineato – è uno scontro tra tifoserie e non ha alcun senso. Io da medico non sono ovviamente contro i vaccini, ma il punto è che per dissipare ogni ragionevole dubbio, ad esempio su possibili effetti collaterali, andrebbero realizzate delle ricerche indipendenti, perlomeno a livello europeo (più ampio è il campione indagato, minori sono i tempi e i costi), e a quel punto sarà possibile fare in maniera seria tutte le valutazioni e i ragionamenti, e si potrà decidere di mantenere alcuni vaccini e di essere magari più cauti su altri. Il problema – lo ripeto – è che una ricerca è “scientifica” nel vero senso del termine se è indipendente. Il caso della cosiddetta “aviaria” in questo senso è emblematico: nel 2009 le autorità sanitarie stabilirono che c’era un rischio di pandemia influenzale. Ne derivò un forte allarme sociale, le case farmaceutiche si attivarono per la produzione di vaccini, e gli Stati acquistarono i vaccini. È finita come sappiamo, ovvero: la pandemia non ci fu, e secondo i dati dell’European Centre for Disease Prevention and Control l’aviaria in sette settimane ha causato 3mila decessi, mentre la normale influenza stagionale può arrivare a provocare fino a 40mila decessi annui circa nella regione europea. L’Italia spese 184 milioni di euro per acquistare 24 milioni di dosi del vaccino, usandone poi soltanto 850mila. E alcuni Stati fecero anche di peggio: la Francia, per esempio, spese 869 milioni di euro, acquistando 94 milioni di dosi e usandone soltanto 5 milioni. L’OMS stabilì che ci si trovava in presenza di una “pandemia” e per farlo ne modificò la definizione, non più basata sul numero dei morti, come era stato fino a quel momento, ma sulla sola presenza di un agente infettivo prima sconosciuto ed in grado di provocare potenzialmente un alto numero di malati. La dichiarazione di “pandemia” autorizzò le aziende farmaceutiche a ridurre i tempi e la complessità delle ricerche necessarie per chiedere l’autorizzazione ad immettere nel mercato dei nuovi prodotti.
Fu aperta un’inchiesta dentro l’Oms e si scoprì che le due commissioni che si erano occupate della questione annoveravano al loro interno in un caso esperti delle aziende che producevano farmaci e vaccini, e nell’altro caso fruivano di finanziamenti da parte delle medesime aziende. Il Consiglio d’Europa ha in seguito condannato duramente quanto avvenuto, e ha parlato di vaccini “insufficientemente testati e con effetti collaterali sconosciuti”. Al centro dei dibattiti dovrebbe sempre esserci il dato scientifico, che però in molti casi non è ricercato con la necessaria e rigorosa attenzione per la presenza di forti interessi economici che spingono in una sola direzione. Dunque – e ovviamente – sono un medico e non sono antivaccinista, ma i vaccini devono essere accompagnati da ricerche indipendenti per capire come e in che misura è opportuno utilizzarli.
Lei ha espresso più volte parole di apprezzamento per Papa Francesco. Qual’è il suo rapporto con la religione, con la Chiesa e con il mondo dell’associazionismo cattolico?
Io sono cresciuto in ambienti cattolici e sono stato per più di vent’anni nel mondo dello scoutismo. Penso che nel deserto di riferimenti etici e morali nel quale ci muoviamo la voce di Papa Francesco sia molto importante in campo sociale. Ho avuto l’onore di essere tra i 180 attivisti dei movimenti sociali provenienti da tutto il mondo invitati in Vaticano nel novembre del 2016 – con lettera personale del Papa – per una quattro giorni di lavori e di dibattiti sui temi Terra, Lavoro e Casa. Nell’incontro conclusivo in plenaria il Papa ha invitato a sedersi in prima fila, tra i posti generalmente riservati ai cardinali, Don Ciotti e l’intellettuale ed ex guerrigliero uruguaiano Pepe Mujica; un messaggio forte, simbolico, che indica una precisa scelta di campo, non solo a fianco dei più poveri, ma a fianco di chi, insieme a loro, organizza concretamente le lotte. Papa Francesco ha scritto cose importanti anche sul tema dell’ecologia e del rispetto dell’ambiente nell’enciclica Laudato si’, e ha più volte affermato in maniera chiara e inequivocabile che la carità non basta, che bisogna combattere le cause dell’ingiustizia e che quando si parla di diritti bisogna impegnarsi attivamente, anche a livello politico. Su altri temi legati alla bioetica e alla morale sessuale della Chiesa le mie posizioni sono molto lontane da quelle del Papa, ma sui temi sociali io credo che questo pontefice sia una figura importantissima.