La rivoluzione tessile. AI, Supply Chain globali, Sostenibilità, Organizzazione

La rivoluzione tessile. AI, Supply Chain globali, Sostenibilità, Organizzazione

Intervista a Paolo Torello-Viera

A cura di Luigi Torriani

PAOLO TORELLO-VIERA – Dirigente e manager di lungo corso nel settore tessile, Paolo Torello-Viera è nato a Biella e vive a New York. È stato vice-presidente in Ermenegildo Zegna, direttore operativo (COO) in Brioni, direttore operativo (COO) alla Samuelsohn, CEO di BVM Usa (Les Copains – Gian Battista Valli), CEO per le Americhe di Pal Zileri e CEO del Lanificio Fratelli Cerruti. Oggi è Partner e Senior Advisor di CDI Global, e segue – per CDI – il mondo del Fashion e le fusioni e acquisizioni tra i grandi brand della moda.

 

Si parla molto oggi delle diverse possibili declinazioni dell’Intelligenza Artificiale – AI nel mondo tessile, per il controllo qualità e per la rilevazione dei difetti nella produzione, per la Predictive Maintenance, per la pianificazione della produzione, ma anche – per esempio – per le vendite in ambito fashion (come previsione intelligente per ridurre i costi di inventario e di spedizione, o per “anticipare” le preferenze dei consumatori). Cosa pensi di questa rivoluzione tecnologica che è alle porte? Che impatto avrà sul settore tessile?

Quello dell’Intelligenza Artificiale è un tema importante, rispetto al quale credo si debbano distinguere tre aspetti: quello tecnologico-scientifico, quello umano-professionale e quello etico.

Dal punto di vista tecnologico non ho dubbi sul fatto che l’Intelligenza Artificiale possa offrire dei grandi vantaggi nell’ambito dell’industria tessile, consentendo una gestione più accurata della produzione, un miglioramento nel controllo della qualità dei prodotti e un incremento dei livelli di sicurezza informatica. Ci sono già oggi, per esempio, della applicazioni di Intelligenza Artificiale che consentono – utilizzando sensori e algoritmi che analizzano i dati – di capire come e quando fare manutenzione e in che modo evitare o ridurre i fermi macchina; altre applicazioni sono al servizio della sostenibilità perché aiutano a minimizzare i consumi usando in modo più razionale le macchine, oppure agevolano la rilevazione dei difetti nella produzione, tramite webcam che controllano i tessuti e che sono interfacciate a specifici moduli software.

Sul piano umano-professionale – tuttavia – sono convinto che la rivoluzione dell’Intelligenza Artificiale debba essere guidata in maniera oculata e sobria, ponendola al servizio del lavoro umano e senza esasperazioni ed eccessi sul fronte della riduzione dei costi e quindi del personale. Vedo con perplessità, su questo fronte, forme di entusiasmo smodato, sia perché molte applicazioni – se non correttamente gestite da persone qualificate – non forniscono i risultati auspicati (nel controllo della qualità, per esempio, l’Intelligenza Artificiale – da sola – rileva troppi difetti nei tessuti, troppi rispetto a quello che avrebbe senso correggere), sia perché le opportunità lavorative per le persone sono già state – negli ultimi decenni – drasticamente ridotte dall’implementazione di altre tecnologie, e c’è un limite oltre il quale la riduzione del lavoro umano rischia di porre più problemi – sociali e politici – di quanti non ne risolva.

Infine c’è un aspetto etico che non va sottovalutato, e che è già oggi altamente problematico nel mondo del fashion, e in particolare nell’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale per “anticipare” e orientare le preferenze dei consumatori sulla base dei dati raccolti. Qui io vedo un problema gigantesco di Privacy che non può essere ignorato. Capisco le esigenze di marketing e di business, ma come dimostrano i recenti scandali sull’utilizzo improprio dei dati da parte di alcuni colossi del web ci sono dei limiti che secondo me non andrebbero oltrepassati.

 

Passata la fase più grave dell’emergenza Covid c’è stata – per il tessile – una forte ripartenza, ma accompagnata da una rottura delle supply chain globali, all’interno di un quadro fortemente caotico, nel quale all’aumento dei prezzi delle materie prime si accompagnano forti criticità nella logistica e nei trasporti, con costi lievitati, ritardi nelle consegne e difficoltà di ogni genere. Cosa sta succedendo? Come stanno cambiando le filiere tessili mondiali?

Blocchi e ritardi nelle consegne, costi spropositati di materie prime e servizi logistici, aumenti dei costi dei trasporti (spedire un container dalla Cina agli Stati Uniti costa oggi oltre 20mila dollari, dieci volte tanto il costo che aveva due anni fa…) sono gli aspetti più eclatanti di un quadro complessivo inedito e molto difficile da decifrare. Nel porto di Los Angeles – per esempio – c’è una congestione delle navi che ha ben pochi precedenti storici, un collo di bottiglia che va avanti da mesi e che nessuno ha capito come e quando potrà risolversi.

Chi pagherà questo aumento dei costi? Fino a quando saliranno i prezzi? In che misura conviene oggi fare scorte di magazzino per risparmiare? Sono domande aperte. Di certo si deve arrivare a breve – in qualche modo – a una forma di equilibrio, ma  per il momento l’inflazione sta galoppando, con un indice dei prezzi al consumo che a ottobre 2021 – negli Stati Uniti – registra un +6,2% su base annua. Ed è così praticamente ovunque, con l’inflazione che sta balzando ai massimi storici da cento anni a questa parte.

In questo contesto la notizia positiva – per il settore tessile – è che la necessità post-Covid di riallineare i magazzini e di ribilanciare le scorte, sta determinando un boom di ordini e di richieste alle manifatture e alle aziende di produzione, con opportunità insperate per le filature e le tessiture in Europa e nel Nord America, aziende che in alcuni casi stanno traendo dei notevoli vantaggi congiunturali dalla rottura delle supply chain globali e dall’aumento dei costi dei trasporti dall’Asia.

C’è chi spera che questa situazione possa essere il preludio di una rivoluzione delle filiere tessili mondiali e di un forte rilancio della produzione in Europa e negli Stati Uniti (nel caso degli Stati Uniti ad aiutare – da questo punto di vista – c’è anche la presenza di dazi elevati sui prodotti tessili in arrivo dalla Cina). Da italiano di Biella, oggi residente a New York, capisco e condivido questo entusiasmo, però bisogna essere realisti e fare un’analisi obiettiva. Innanzitutto siamo in una fase eccezionale, legata alle conseguenze di una pandemia e difficilmente proiettabile sul medio termine. A un certo punto probabilmente arriveremo a una normalizzazione, nella quale potranno esserci – questo sì – delle importanti e nuove opportunità per la produzione tessile occidentale, ma nella quale molte cose torneranno come prima, i prezzi scenderanno e le supply chain consolidate riprenderanno per lo più il loro corso. In secondo luogo la domanda che dobbiamo porci è questa: che prodotti vogliamo fare? Su cosa vogliamo puntare?

Un rilancio della produzione tessile in Europa e nel Nord America non può essere il rilancio di produzioni di massa, a basso valore aggiunto. Non ci conviene, e per noi non ha senso, puntare su una strategia al ribasso, su una politica del centesimo in meno. Sarebbe devastante, sarebbe la ricetta perfetta per un disastro. Pensiamo al Made in Italy: l’italianità nel tessile-moda è sinonimo di eccellenza, di qualità, di alta gamma. Su questo bisogna puntare, su prodotti di fascia alta, eco-sostenibili e ad alto valore aggiunto. Questo tipo di produzione tessile – che in parte avevamo perso – deve tornare totalmente o quasi totalmente in Europa. In questo senso, e solo in questo senso, auspico un nuovo grande rilancio del tessile europeo e in particolare italiano.

 

Parlare di Sostenibilità è diventato imprescindibile oggi nel mondo tessile. Ma non tutti gli attori della filiera, e non tutti marchi della moda, sono realmente e concretamente impegnati su questo fronte. Quel è il confine tra Sostenibilità e Greenwashing, tra ambientalismo vero e marketing ecologista?

C’è uno slogan che secondo me rappresenta correttamente il concetto di sostenibilità, al di là delle finzioni comunicative: “ How to start being sustainable? 1. Buy less / 2. Better quality / 3. Make it last “. Ovvero: se vuoi essere sostenibile compra meno e compra prodotti di qualità migliore e che durano di più.

La sostenibilità (quella vera) ha un costo, perché richiede degli investimenti importanti da parte delle aziende e perché è tale solo se è presente lungo l’intera filiera (è “sostenibile” il prodotto tessile di un’azienda che rispetta tutte le normative sulle condizioni del lavoro e sulla riduzione dell’inquinamento ma che ha dei fornitori, per quanto riguarda le materie prime, che non rispettano queste regole? La risposta è no…).

Da questo punto di vista – e mi ricollego alla domanda precedente – per chi fa produzioni tessili di eccellenza siamo di fronte a una grande opportunità storica. In un momento nel quale – giustamente – tutti parlano di sostenibilità, per chi – come le aziende più importanti del Made in Italy tessile – lavora su prodotti di alta gamma c’è l’occasione di valorizzare queste produzioni – a livello comunicativo – come produzioni ecosostenibili. Dobbiamo smetterla di annacquare il Made in Italy con concessioni legislative di maglia  larga: se una sola – piccola – fase della lavorazione avviene in Italia, a partire da materie prime non italiane, è sbagliato parlare di Made in Italy.

Il Made in Italy deve essere vero e deve dare origine a prodotti al 100% italiani, sostenibili e di fascia alta. Questo è quello che io mi auguro, e spero che le aziende italiane riescano a fare squadra, a fare sistema, in vista di questo obiettivo.

Da biellese non posso che pensare al tessile di Biella, e al grande ritorno di immagine che potrebbe avere se le aziende del territorio creassero un gruppo e un brand comune per pubblicizzare in tutto il mondo la Sostenibilità Tessile Biellese.

 

Nell’organizzazione manageriale di società e aziende è in crescita la presenza femminile, e il tema è oggi al centro dei dibattiti. A che punto siamo su questo fronte nel mondo della moda e nell’industria tessile?

Una delle aziende tessili con cui collaboro negli Stati Uniti ha l’80% di forza lavoro femminile fin dagli anni Settanta. Ci sono dunque delle realtà virtuose e che erano tali ben prima dei dibattiti odierni sulle quote rosa nelle aziende e nei consigli di amministrazione.

Collaboro spesso con donne Ceo e manager, che per lo più apprezzo e stimo professionalmente, e ho l’impressione che la presenza femminile nei ruoli chiave del mondo tessile andrà aumentando ulteriormente nei prossimi anni.

Credo che questo sia un fenomeno assolutamente positivo, ma che è importante gestire con equità e con correttezza, senza inutili eccessi. Negli Stati Uniti da questo punto di vista alcune situazioni stanno scappando di mano per quanto concerne la forte spinta legislativa e di opinione pubblica nella direzione di un incremento nei ruoli decisionali della presenza delle donne, di persone appartenenti a minoranze etniche, o provenienti da gruppi storicamente svantaggiati o penalizzati.

È tutto giusto se fatto con sobrietà, se invece viene portato avanti – come talvolta vedo accadere – con spirito di rivalsa e con rabbia, con risentimento e con spirito punitivo nei confronti degli uomini o nei confronti di persone appartenenti a gruppi storicamente più avvantaggiati, diventa un fenomeno sbagliato e dannoso.

 

 

 

 

 

 



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