Le tasse in Italia

Le tasse in Italia

Intervista a Luigi Marco Bassani

A cura di Luigi Torriani

LUIGI MARCO BASSANI – Allievo di Gianfranco Miglio, Luigi Marco Bassani è il massimo studioso italiano dei dibattiti nordamericani e internazionali sul federalismo. È professore ordinario di Storia delle Dottrine Politiche presso l’Università degli Studi di Milano. Tra i suoi libri ricordiamo: “I concetti del federalismo”, “Il pensiero politico di Thomas Jefferson”, “Dalla Rivoluzione alla Guerra Civile. Federalismo e Stato moderno in America”, “Dalla Polis allo Stato. Introduzione alla storia del pensiero politico”, “Repubblica o democrazia? John C. Calhoun e i dilemmi di una società libera”.

Per chi non evade e non elude le tasse la pressione fiscale – considerando anche il costo della burocrazia – è oggi in Italia intorno al 55%, che è al momento il dato più alto a livello mondiale. Quali sono secondo lei i fattori più importanti che stanno alla base di questo triste “primato”? In altre parole: perché le tasse in Italia sono così alte?

Il vero motivo che spiega l’attuale naufragio in un oceano di tasse di questo Paese deve essere ricercato nella religione civile che ha ormai soppiantato l’antico cristianesimo di queste terre. Si tratta di una statolatria che non conosce più limiti. Le aree italiche in breve tempo (un secolo e mezzo non è nulla) conoscono per intero la parabola europea dell’ordine politico: assolutismo, nazionalizzazione delle istituzioni e trionfo di logiche autoritarie, tragedia del totalitarismo e alla fine il radicarsi di welfare state e politiche assistenziali. In poche parole, l’espansione continua del potere dello Stato.

Lo Stato per tutti gli intellettuali della penisola coincide con il progresso. In breve: i nostri guai odierni sono fortemente ancorati a questa storia, alla statolatria che ha fatto da sfondo a tutta la vicenda dell’Italia unita. Certo, l’Italia è solo all’avanguardia nel declino dell’Occidente e per alcuni versi ne prefigura i destini. Tuttavia, il livello di centralizzazione e tassazione raggiunto in questo Paese si spiega con la politicizzazione e conseguente statizzazione della società. Se possiamo considerarlo il tratto permanente e pernicioso di tutte le democrazie contemporanee, vive momenti particolarmente gravi in Italia. Mai una società è stata schiacciata da un simile livello di spesa pubblica, debito nazionale, tassazione e conseguente corruzione. E il tutto avviene, con buona pace della mitologia politica imperante, per mezzo di decisioni politiche delle classi dirigenti. Quando il 55% del reddito prodotto viene intercettato e gestito dai funzionari pubblici il disastro non è più annunciato, ma sta accadendo giorno dopo giorno. Fingendo di rispondere a domande e sollecitazioni provenienti dalla “società civile”,  la lunga storia di insignorimento della società da parte dello Stato è arrivata al capolinea: questo assetto politico ormai crea ormai più problemi di quanti non ne risolva.

L’Italia ha passato metà della sua breve storia unitaria ad utilizzare lo Stato per fondare una nazione inesistente (esperimento culminato nel ventennio fascista) e il resto ad esaltare i poteri dello Stato per far fronte alle (presunte) minacce che giungevano dal libero mercato, ossia dalla libertà dei singoli di amministrare il loro patrimonio e di negoziare accordi con altri individui.

 

È opinione diffusa che i problemi dell’Italia siano legati anche all’alto livello presunto dell’evasione fiscale e del Pil sommerso. Secondo lei è effettivamente così oppure c’è una percezione che tende a sovrastimare i numeri dell’evasione fiscale italiana? E qual è il suo pensiero sulle azioni di contrasto all’evasione fiscale che sono state messe in atto dall’Agenzia delle Entrate negli ultimi anni?

Su di una cosa politici, giornalisti e osservatori sembrano essere pienamente d’accordo: la lotta all’evasione fiscale (agenda di tutti, ma soprattutto prima di Tremonti, poi di Monti, Letta, Renzi, Gentiloni) è la priorità del Paese. L’Italia, secondo la vulgata, si starebbe impoverendo perché non tutti contribuiscono al mantenimento del settore pubblico, che dal canto suo è costretto a tassare un po’ troppo giacché alcuni “non contribuiscono” in maniera adeguata. La ben bizzarra affermazione: “L’economia (sommersa) sottrae 300/400 miliardi di euro allo Stato” è una delle scempiaggini più diffuse nel discorso politico.  In breve: molti credono che se tutti pagassimo le tasse tutti ne pagheremmo di meno, lo Stato sarebbe meno indebitato, la tassazione più equa e umana.

In primo luogo, è stata creata dal nulla una figura metafisica, che nella nostra società semplicemente non può esistere: quella dell’evasore totale, che ricorda un po’ l’untore manzoniano. Tutti mangiano, comprano vestiti, fanno benzina, si muovono per ogni dove e quindi non si può che essere, al massimo, evasori parziali.

In ogni caso, vi sono vistose falle logiche nei ragionamenti antievasione. Solo se esistesse un tetto alla spesa pubblica (sia assoluto, sia in percentuale del PIL) la frase “se tutti pagassimo le tasse tutti ne pagheremmo di meno” potrebbe rientrare nel campo della veridicità. Non essendovi alcun limite alla spesa pubblica, va presa per ciò che è: un semplice mantra politico indimostrato e indimostrabile.

Ma vi è di più. Il prodotto interno lordo misura il flusso monetario corrispondente allo scambio di beni e servizi tra gli individui e le imprese all’interno di un sistema economico. Semplice no? Mica tanto. Alla metà degli anni Ottanta, Bettino Craxi era insoddisfatto del calcolo della ricchezza italiana. L’ipernazionalista socialista voleva a tutti i costi superare la Gran Bretagna e vi riuscì conteggiando il “sommerso”. Una quota variabile (dal 12 al 18 percento) sottratta alle occhiute attenzioni del fisco, ma non dell’Istat, rientra da allora nel calcolo e riesce a far apparire l’Italia un Paese non del tutto povero. Immaginiamo che i politici vincano la loro battaglia, sbaraglino l’evasione, facciano emergere il sommerso. Cosa succederebbe? Forse che i 333 miliardi e rotti di (presunto) nero entrerebbero tutti insieme nel conto della ricchezza nazionale? Il sommerso emergerebbe intatto come d’incanto? Evidentemente no, una quota assai consistente sparirebbe, perché quella ricchezza non nascerebbe mai se fosse tassata e si crea proprio perché “sommersa”. Non è una ricchezza in cerca di un pubblico padrone ma in fuga dallo Stato, ed è una ricchezza che lo Stato può certamente distruggere, ma ben difficilmente incamerare.

Inoltre, l’evasione non è omogenea su tutto il territorio. La Lombardia ha la più bassa percentuale del Paese, il 10,5% (se così non fosse il banco sarebbe saltato da un pezzo) e la Calabria la più alta, l’80%. In mezzo si collocano tutte le altre regioni, con la Campania al 53 e il Veneto al 18%. Ma a chi mantiene tutta la baracca, ossia i lombardi e il loro “aiutantato” nordista, converrebbe davvero che il Sud rientrasse verso proporzioni accettabili di evasione fiscale? No davvero e il perché è presto detto. Se al Sud rientrasse l’evasione fiscale sparirebbe il vero welfare privato e dovrebbe necessariamente aumentare quello pubblico, con un inasprimento della rapina fiscale ai danni del Nord che provocherebbe la definitiva coventrizzazione del sistema produttivo lombardo-veneto.

Per chi ragiona sui dati economici è chiaro che la lotta all’evasione, se fosse presa sul serio, sarebbe un biglietto di sola andata per il terzo mondo.

 

Una domanda tra il filosofico e il teologico: fino a che punto ed entro che limiti è giusto “dare a Cesare quel che è di Cesare”? Quali sono i requisiti che una legge tributaria deve avere per essere considerata giusta e opportuna? E quando invece si può parlare di “rapina fiscale” e di leggi ingiuste?

Non saprei davvero discutere di “corretta fiscalità”, lo trovo quasi impossibile oggi. Vede, sarebbe come se due ufficiali tedeschi nel 1943 a Stalingrado si domandassero qual è una “dose” accettabile di amor di patria.

Solo 15 anni or sono, la spesa pubblica italiana era inferiore del 30% rispetto a quella odierna – 560 miliardi anziché 830 – mentre il PIL è il medesimo. Nell’ultimo ventennio abbiamo assistito al più grande travaso di risorse dal settore privato a quello pubblico della storia. La crisi è tutta in questo dato, non è di natura economica, ma puramente politica: le classi al potere hanno conquistato consenso prima con i soldi dei non nati (ossia con deficit di bilancio fra il 7 e il 10 per cento), e adesso son costretti a ricorrere a una tassazione che ormai è a livelli tali da rendere qualunque idea di crescita economica una chimera. Non sono gli scambi e l’economia ad uccidere, come racconta il Papa, ma è la mano pubblica scambiata per economia. Ma no, non ho idea di come dovrebbe strutturarsi una corretta tassazione. Forse si tratta di un ossimoro, tipo “ghiaccio bollente”, oppure di una contractio in adiecto, come “ferro ligneo”.

 

Nella politica italiana c’è chi ha proposto una flat tax al 23%, e addirittura chi promette un’aliquota unica al 15%. Secondo lei potrebbe essere questa una scelta condivisibile e una via praticabile? Più in generale: in che modo chi governa oggi in Italia può realisticamente riuscire ad abbassare la pressione fiscale? 

Sono tutte fantasticherie e farneticazioni elettorali. Berlusconi prometteva aliquote massime sul reddito al 33%, ha avuto le più ampie maggioranze della storia e non ha neanche tentato nulla.

Questo Paese è irriformabile. È un castello di carte, ma si trova ancora in una stanza con poco vento (grazie a Mario Draghi, ovvio). A causa delle relazioni parassitarie consolidate e dei mille rivoli nei quali si è incanalata la spesa pubblica non accadrà molto per un po’. La conclusione è semplicemente desolante e lo diventa ancor di più se ragioniamo in prospettiva. Agli attuali livelli di indebitamento (il debito pubblico risulta ancor più fuori controllo nell’era Monti-Renzi rispetto agli anni precedenti), nonché a quelli di spesa pubblica e tassazione, l’apparato produttivo del Nord (al Sud non esiste nulla che possa essere realisticamente chiamato con questo nome) sarà distrutto. Ebbene, sappiamo tutti che nel panorama politico non esiste nessuna proposta concreta volta ad abbattere debito, tassazione e spesa (per non parlare della rapina fiscale ai danni della Lombardia, che quando non viene grossolanamente negata è considerata la “normalità” della politica italiana). Tutta la campagna elettorale del 2018 ha ignorato il debito, le tasse, la rapina fiscale.

I politici al comando andranno avanti così, con manovre di piccolo cabotaggio fino a che non sarà certificato non il declino dell’Italia, ma la fine di ogni impresa privata. A quel punto la “forza delle cose” spingerà milioni di straccioni dalle Alpi al Canale di Sicilia a ridiscutere tutto: tasse, rapina fiscale, confini. Nella stanza soffierà un vento tale da far saltare il castello di carte al punto che nessuno sarà più in grado di ricomporre il mazzo.  I politici di rango hanno la piena consapevolezza di ciò, da Napolitano a Monti a Letta fino all’ultimo rampollo della classe dirigente di questo Paese, ma nessuno muoverà un dito per evitare il baratro.

Ma la classe dirigente non è formata solo da politici. Gli imprenditori hanno per mestiere il dovere di immaginare il futuro. Se secondo la teoria economica il loro successo dipende proprio dal prevedere le preferenze future dei consumatori, nel caso Italia conviene loro essere previdenti globali, o preveggenti.  E infatti lo sono. I loro figli sono quasi tutti all’estero, o sul piede di partenza, proprio come i loro capitali e le loro aziende. Vorrei poter concludere con toni ottimistici, ma il mio realismo spietato me lo impedisce.

 



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