Proprietà intellettuale e diritto d’autore. Evoluzione giuridica e controversie

Proprietà intellettuale e diritto d’autore. Evoluzione giuridica e controversie

Intervista a Avv. Emanuele Cammareri – Partner Studio Legale Bresner Cammareri – BCIP

A cura di Luigi Torriani

STUDIO LEGALE BCIP Studio legale con sede a Milano, specializzato in diritto della proprietà intellettuale e diritto civile e penale dell’impresa e delle professioni.

Dal punto di vista del diritto della proprietà intellettuale quali sono e come si sono evolute le regole?

Il concetto di proprietà intellettuale così come lo conosciamo oggi nasce nel XIX secolo in conseguenza dell’avvento dell’industrializzazione e della globalizzazione, e racchiude principi e norme volte a tutelare le innovazioni e le creazioni umane e a ricompensare i loro autori.

Nell’ordinamento italiano i principi e le norme che regolano la proprietà intellettuale sono racchiusi nella Legge sul Diritto d’Autore del 1941 (Legge 22 aprile 1941 n° 633) e nel Codice di Proprietà Industriale (CPI) del 2005 (successivamente più volte modificato). Il primo tutela le creazioni artistiche quali, ad esempio, i libri, la musica, i dipinti, le sculture e le installazioni; il secondo, invece, tutela, attraverso i marchi, chi commercializzi determinati prodotti o fornisca determinati servizi identificandoli con un particolare segno distintivo, attraverso i brevetti, le invenzioni nei più disparati campi della tecnologia e, infine, attraverso i modelli o disegni, la forma esteriore di un prodotto.

Il corpus normativo in materia di proprietà intellettuale si è recentemente evoluto in conseguenza delle numerose modifiche apportate, nel 2017, al Regolamento Marchi dell’Unione Europea. Tali modifiche hanno, in sostanza, avuto l’obiettivo di rendere l’iter di registrazione di un marchio più semplice, chiaro ed accessibile.

A titolo di esempio, dal 1° ottobre 2017 il requisito della rappresentabilità grafica del segno tutelato dalla domanda di marchio UE non è più obbligatorio all’atto della presentazione della domanda stessa. Da ciò deriva che i segni che si vogliano registrare come marchi UE potranno essere rappresentati, utilizzando la tecnologia generalmente disponibile, in qualsiasi forma idonea, purché la rappresentazione sia chiara, precisa, autonoma, facilmente accessibile, intelligibile, durevole ed obiettiva. Oggi, quindi, possono costituire validi marchi UE tutti i segni – ad esempio le parole, compresi i nomi di persone o i disegni, le lettere, le cifre, i colori, la forma dei prodotti o del loro imballaggio e i suoni – a condizione che tali segni siano adatti a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese, e a condizione che tali segni siano adatti ad essere rappresentati nel Registro dei Marchi dell’Unione Europea in modo da consentire tanto alle autorità competenti quanto al pubblico dei consumatori di determinare, in maniera chiara e precisa, l’oggetto della protezione garantita dalla registrazione di marchio al titolare della stessa.

Sempre nell’ottica di accrescere la certezza del diritto per gli utenti e di ridurre il tasso di obiezioni relative ai requisiti formali previsti dalla vigente normativa, perché un marchio possa andare a registrazione l’articolo 3 del Regolamento di Esecuzione (UE) 2018/626 della Commissione del 5 marzo 2018 prevede, sul punto, norme e requisiti specifici per la rappresentazione di alcuni fra i tipi di marchio più diffusi, compresi alcuni specifici requisiti tecnici, variabili a seconda della natura e delle particolari caratteristiche del marchio in questione (così che oggi è possibile registrare come marchio, ad esempio, anche un movimento, un pattern, una forma tridimensionale, un suono o un ologramma).

L’evoluzione della materia della proprietà intellettuale, quindi, è – oggi più che mai – in continuo divenire, pronta a recepire, da un lato, i cambiamenti della scienza e della tecnica e, dall’altro lato, le sempre più stringenti esigenze di tutela della collettività (tanto dei produttori quanto dei consumatori).

 

Quali sono oggi le norme per la registrazione di marchi e di brand?

Secondo l’articolo 7 CPI “possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa tutti i segni suscettibili di essere rappresentati graficamente, in particolare le parole, compresi i nomi di persone, i disegni, le lettere, le cifre, i suoni, la forma del prodotto o della confezione di esso, le combinazioni o le tonalità cromatiche, purché siano atti a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese”. I prodotti e/o servizi rivendicati dal marchio dovranno, in ogni caso, essere descritti con precisione, al fine di determinare puntualmente la portata della protezione del marchio stesso e, quindi, di garantire la certezza giuridica del diritto di privativa conferito dalla competente autorità.

È possibile presentare domanda di registrazione di un marchio in qualsiasi momento (ossia anche dopo che si sia iniziata la commercializzazione dei prodotti o dei servizi identificati dal marchio) ed è possibile scegliere tra marchio nazionale (italiano od estero), marchio dell’UE o marchio internazionale, in base alla copertura geografica che si desideri dare al proprio marchio e che, quindi, si desideri dare ai diritti di privativa derivanti dal marchio stesso.

La durata della protezione apprestata dalla registrazione di marchio è di 10 anni dalla data del primo deposito. A scadenza, tale durata potrà essere rinnovata a tempo indeterminato per successivi periodi di 10 anni ciascuno.

L’Italia, in qualità di membro dell’Accordo di Nizza, è tenuta ad applicare, ai fini della registrazione dei marchi, la Classificazione di Nizza dei prodotti e dei servizi. Da ciò deriva che, come previsto anche dall’art. 156 CPI, all’atto del deposito della domanda di marchio sarà necessario specificare puntualmente i prodotti e/o i servizi in relazione ai quali il marchio dovrà essere tutelato, identificando le relative classi di appartenenza di tali prodotti e/o servizi.

Venendo, poi, al marchio dell’Unione Europea, lo stesso ha carattere unitario, ovvero produce gli stessi effetti in tutti i 28 Paesi dell’Unione (dal marzo 2019, con la definitiva uscita del Regno Unito dall’UE, i Paesi diverranno però 27). Tali effetti decorrono dalla data di tutela della domanda ma vengono meno nel caso in cui la domanda non giunga, alla fine dell’iter brevemente descritto qui di seguito, a registrazione.

La procedura di registrazione di una domanda di marchio UE ha inizio, come detto, con il deposito della domanda stessa e il pagamento delle relative tasse. Successivamente, tale domanda viene esaminata dall’EUIPO (Ufficio dell’Unione Europea per la Proprietà Intellettuale), onde individuare eventuali motivi di nullità assoluta ostativi alla registrazione della domanda de qua (ad esempio, descrittività o mancanza di distintività). Per dar corso a tale incombenza l’EUIPO impiega normalmente uno o due mesi. Nel caso in cui l’Ufficio dovesse riscontrare la sussistenza dei detti motivi di nullità assoluta, viene emessa un’obiezione, alla quale occorre – se del caso – far fronte.

Successivamente il marchio viene pubblicato sul Bollettino dell’Unione Europea e, a partire dalla data di pubblicazione, decorre un periodo di tre mesi nel corso del quale qualunque terzo è legittimato ad opporsi alla registrazione del marchio in questione. Laddove non vi dovessero essere opposizioni, la domanda di marchio giunge – nei due mesi (circa) successivi alla scadenza del termine di opposizione – a registrazione.

La registrazione del marchio UE è rinnovata, anch’essa ogni 10 anni, su richiesta del titolare o di qualsiasi persona che egli abbia esplicitamente autorizzato a tale scopo, purché le tasse siano state regolarmente ed integralmente pagate.

In generale, negli ultimi anni il marchio dell’Unione Europea è stato decisamente preferito, dagli imprenditori, rispetto al marchio italiano, in considerazione del fatto che – come sopra evidenziato – il marchio UE ha un’efficacia territoriale decisamente più estesa rispetto al marchio italiano e, soprattutto, in considerazione del fatto che, normalmente, il marchio UE impiega 6/8 mesi, decorrenti dalla data di deposito, per giungere a registrazione, anziché un anno o più, come – invece – il marchio italiano.

 

Quando si può parlare di concorrenza sleale e di pratiche commerciali scorrette?

Quando si parla di concorrenza sleale e di pratiche commerciali scorrette ci si riferisce, generalmente, all’uso in commercio di nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi registrati, ovvero legittimamente usati, da altri, e – allo stesso tempo – all’ imitazione servile di prodotti di un concorrente o, ancora, al comportamento di colui che compia, con qualsiasi mezzo, atti idonei a creare confusione con i prodotti e/o con i servizi di un concorrente. Tali atti devono essere, per poterli qualificare come di concorrenza sleale, idonei a danneggiare l’azienda altrui, oltre che non conformi ai principi della correttezza professionale.

Nella fattispecie della concorrenza sleale possono ricondursi tanto le pratiche commerciali rivolte contro un concorrente determinato, quali la sottrazione di segreti aziendali o la contraffazione di un marchio, quanto le pratiche non rivolte ad uno specifico imprenditore, che siano, però, in grado di alterare la situazione di mercato, come – ad esempio – la pubblicità denigratoria o la pubblicità ingannevole.

L’attuale sistema, così come oggi disciplinato, prevede che laddove un imprenditore sia oggetto di una pratica siffatta, egli possa ottenere una tutela immediata, attraverso un provvedimento giudiziale di inibitoria del comportamento sleale o di sequestro dei beni illecitamente prodotti o commercializzati, oltre che per tramite di un risarcimento del danno.

 

Il diritto d’autore nell’editoria, nel cinema, nella musica e nelle arti: dopo quanti anni scadono i diritti su un libro o su un disco, e le opere diventano liberamente riproducibili e commercializzabili? Che peso hanno i diritti d’autore dal punto di vista del business? I Beatles e i loro eredi – per esempio – quanto potrebbero aver guadagnato dai diritti d’autore?

Con l’espressione diritti d’autore si indicano una serie di diritti che tutelano gli autori di opere creative. Tali diritti possono essere suddivisi in diritti patrimoniali (ovvero diritti esclusivi dell’autore di sfruttare economicamente la propria creazione, di autorizzarne la diffusione, la riproduzione, l’esecuzione e la rappresentazione) e in diritti morali (che comprendono il diritto di decidere se e quando pubblicare l’opera, di rivendicarne la paternità, di opporsi a qualsiasi deformazione dell’opera stessa o ad ogni atto a danno della stessa e, anche, di ritirarla dal commercio).

Tali diritti hanno una durata di 70 anni dalla morte dell’autore dell’opera e hanno sicuramente un peso rilevante dal punto di vista del business, in considerazione del fatto che sono cedibili a terzi e possono essere oggetto di successione. Nel caso dei cantanti, però, la questione si complica leggermente, entrando in gioco anche i cd. diritti connessi ed essendo coinvolte anche le case discografiche, anch’esse titolari di quote di diritti d’autore.

Solitamente il trasferimento del diritto si attua attraverso il contratto di edizione: con esso l’autore, a fronte di un compenso pattuito, concede all’editore il diritto di pubblicazione dell’opera e l’editore si obbliga, in cambio, a riprodurre l’opera e ad offrirla in vendita ad un prezzo convenuto. Con tale contratto l’autore non cede, in realtà, il proprio diritto d’autore, ma costituisce, a favore dell’editore, un nuovo diritto relativo all’utilizzazione economica dell’opera nei limiti fissati dal contratto (ossia per un certo numero di edizioni o entro un certo periodo temporale, che non può eccedere i venti anni). Il compenso è normalmente legato al risultato delle vendite (si parla, in questi casi, di compartecipazione).

Nel caso dei Beatles, ad esempio, è risaputo che l’intero catalogo delle loro canzoni fu ceduto al gruppo Sony/ATV; in seguito, quote di tali società furono vendute, al prezzo “stracciato” di 47,5 milioni di dollari, a Micheal Jackson, che acquistò circa 250 brani dei Beatles firmati da Lennon-McCartney.

Recentemente, McCartney ha portato la questione in tribunale, citando la Sony (che a seguito della morte di Micheal Jackson è tornata proprietaria di tali canzoni) perché convinto di poter rientrare in possesso dei diritti sul prezioso catalogo. Nell’ambito di tale procedimento, presentato di fronte alle competenti Corti federali, ha trovato applicazione la legge statunitense e, nello specifico, la normativa sul copyright del 1976, la quale dispone che il diritto d’autore ceduto a terzi può essere recuperato legalmente con procedure diverse a seconda dell’anno di creazione dell’opera contestata. Nel caso dei Beatles, avendo questi ultimi ceduto parte dei loro diritti a case discografiche (quale, appunto, la Sony), per i brani scritti prima del 1978 è necessario, per rientrare in possesso dei relativi diritti, attendere 56 anni, mentre per quelli scritti dopo il 1978 è sufficiente attendere“solo” 35 anni, depositando un’apposita istanza in tribunale.

In ogni caso, indipendentemente dalle dispute instaurate e dalle controversie ancora pendenti, è indubbio che i Beatles e i loro eredi abbiano sino ad oggi guadagnato, solo di diritti d’autore, centinaia di milioni di Euro. Basti pensare che, nel 2015, Paul McCartney è stato riconosciuto come il musicista più ricco al mondo.

 

In termini di diritti d’autore quanto può ricavare uno scrittore – ad esempio Dan Brown – quando viene tratto un film da un suo romanzo?

I benefici, per un autore, possono configurarsi sia in termini di ricavi diretti, sia in termini di ricavi indiretti.

I primi sono quelli connessi alla commercializzazione dell’opera derivante da un contratto di edizione, dalla sua rappresentazione o dalla sua esecuzione diretta in favore di un pubblico identificato (teatri, concerti, etc.), allorché – per tale rappresentazione o esecuzione – venga pagato un corrispettivo specifico (acquisto della riproduzione, acquisto di biglietti o abbonamenti) direttamente per quell’opera o anche per quell’opera nel contesto di una più ampia fruizione (libri, dischi, cassette, pay-tv, spettacoli dal vivo, rappresentazioni teatrali, esposizioni in mostre o musei, concerti, pubblicazioni antologiche, eccetera).

I ricavi indiretti sono, invece, connessi alla rappresentazione dell’opera al pubblico attraverso radio, televisione o altri mezzi di diffusione sonora e visiva, allorché il pubblico non versi, per tali rappresentazioni, alcuna somma specifica, ovvero versi abbonamenti annuali connessi a una molteplicità indeterminata di spettacoli e, quindi, non riconducibili, neanche indirettamente, a quell’opera specifica.

Come precedentemente accennato, oltre ai diritti d’autore, esistono anche diritti c.d. “connessi” (o “in stretta relazione”), che hanno il fine di premiare e/o incentivare lo sforzo creativo e gli investimenti di coloro che rendono le opere accessibili e fruibili al pubblico: gli artisti, gli interpreti e gli esecutori musicali e audiovisivi, i produttori discografici, le emittenti radiofoniche e televisive, ecc.

I diritti d’autore sono spesso condivisi in comunione tra coautori, specialmente nei casi delle opere creative che richiedono una pluralità di “voci” o abilità e lavori differenti: è il caso, a titolo di esempio, delle opere creative nell’editoria (si pensi ai giornali o alle enciclopedie) o delle opere audiovisive, quali i film. In casi specifici esistono, poi, diritti a compenso che garantiscono un’equa remunerazione agli autori e agli artisti, interpreti ed esecutori, musicali e audiovisivi: ciò accade per le trasmissioni radiofoniche o televisive di registrazioni musicali e di opere audiovisive (ad esempio i film) e per la copia realizzata per uso esclusivamente personale. Questo sistema di compensazioni economiche è pensato per stimolare la produzione culturale e per mettere autori, artisti ed industrie creative nelle condizioni di continuare a creare in modo autonomo ed intellettualmente libero, a beneficio del pubblico, della società e della cultura nel suo insieme.

Nel caso di uno scrittore e di un film tratto dalla sua opera, i diritti di sfruttamento di questa possono essere ceduti anche a cifre molto rilevanti, essendo possibile richiedere una percentuale sui profitti derivanti dal film stesso. La possibilità, quindi, che un diritto d’autore ha di generare benefici economici nel futuro dipende dalle caratteristiche intrinseche dell’opera e dal favore che la stessa può incontrare presso il pubblico, dall’effettiva pianificazione del suo concreto sfruttamento, oltre che dalle disponibilità di adeguate risorse finanziarie e produttive idonee a sostenere lo sfruttamento economico.

Venendo, infine, a Dan Brown, risulta che i suoi guadagni – derivanti tanto dai libri quanto dallo sfruttamento cinematografico di tali libri – si siano attestati, negli ultimi anni, attorno ai 30 milioni di dollari all’anno. E’ evidente, quindi, che un autore di successo può ricavare somme particolarmente ingenti dallo sfruttamento, diretto o indiretto, delle proprie opere e dei diritti collegati alle stesse.

 

Brevetti e invenzioni: quali sono i casi più interessanti negli ultimi anni? Ancora oggi è possibile arricchirsi inventando e brevettando delle novità?

Sicuramente le invenzioni più rilevanti degli ultimi anni si riferiscono all’ambito tecnologico e ambientale: si possono citare, in via esemplificativa, oltre ad Internet e ai social network, le stampanti 3D (brevettate già nel lontano 1986), il sistema GPS, gli smartphone da mettere al polso, come gli Apple Watch, oppure “Bio-On”, la plastica pulita che si scioglie nell’acqua in 10 giorni, prodotta da batteri e rifiuti della lavorazione dello zucchero, del 2007, o – ancora – le nuove miscele di carburante ecologico, fatte all’80% di oli vegetali e per il restante 20% da grasso bovino fermentato.

Ciò detto, non essendoci per fortuna limiti alla creatività umana, e grazie alle sempre più numerose risorse di cui oggi disponiamo, è e sarà sempre possibile arricchirsi grazie al risultato del proprio lavoro intellettuale, purché, naturalmente, si ricorra agli appositi strumenti giuridici apprestati – per la tutela della proprietà intellettuale – a livello nazionale, europeo e internazionale e purché, al contempo, si proceda ad una puntuale pianificazione della tutela e dello sfruttamento del citato lavoro intellettuale.

 

Nel libro “Abolire la proprietà intellettuale”, edito in Italia da Laterza, gli economisti Michele Boldrin e David K. Levine sostengono una tesi provocatoria: più si riduce il peso di monopoli intellettuali, diritti d’autore, copyright, proprietà intellettuale e brevetti meglio è per l’economia e per l’innovazione. Qual è il suo pensiero in proposito?

Appare indubbio, a giudizio di chi scrive, che la proprietà intellettuale sia nata e si sia così intensamente sviluppata negli ultimi decenni proprio in quanto la tutela e la registrazione di un brevetto, di un marchio o di un design è uno strumento che agevola e aiuta lo sviluppo delle imprese e, quindi, l’economia e l’innovazione in generale. È grazie alla titolarità di uno o più diritti di privativa che chi crea è, oggi, sicuro di poter trarre un beneficio economico dalla propria idea e dalla propria creatività. Non appaiono, quindi, del tutto condivisibili le argomentazioni sviluppate nel testo citato.

La proprietà intellettuale, in generale, e la registrazione di un brevetto, di un marchio o di un design, in particolare, dovrebbe essere vista come un investimento e non come un ostacolo. Infatti, sempre più spesso, terzi si appropriano indebitamente di invenzioni o di marchi di design che vengono utilizzati in commercio senza essere stati preventivamente tutelati davanti alle autorità competenti. Laddove tale circostanza si verifichi i costi da sostenere per riappropriarsi della propria invenzione o del proprio marchio/design illegittimamente sfruttato da terzi sono molto più alti di quelli che è, invece, necessario sostenente per ottenere la tutela di tali diritti di privativa per tramite del deposito di una domanda di brevetto, di marchio o di design avanti alle competenti Autorità amministrative.

La proprietà intellettuale rappresenta, quindi, a parere del sottoscritto, uno scudo sicuro ed efficiente a tutela non solo di chi innovi ma anche di voglia, semplicemente, fare impresa ed essere riconosciuto dal proprio consumatore di riferimento, senza che terzi possano parassitariamente sfruttare i propri investimenti o la propria notorietà sul mercato.

 

Avv. Emanuele Cammareri: emanuele.cammareri@bcip.it


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