Storytelling aziendale: ecco cosa non fare

Articolo di Matteo Borghi (giornalista)

Il cortigiano che grida: “Maestà, serve un segnale forte che celebri i diritti acquisiti e i tanti ancora da conquistare”. Maria Antonietta che risponde: “Che mangino una caramella al limone!”. L’immagine di Kate Winslet, la Rose di Titanic, accompagnata dalla scritta: “Ho fatto un calcolo sul numero delle donne a bordo e sembra che non ci siano caramelle al limone per tutte”. Sono solo due delle vignette ironiche che la pagina “Sapore di Male” ha dedicato alla campagna di Trenitalia per la Festa della Donna, che prometteva una caramella Caffarel a tutte donne, ma solo a determinate e stringenti condizioni. Un’iniziativa sommersa da critiche senza precedenti, tanto da dover essere subito rimossa dal sito. Ma dove si possono ricercare, nello specifico, le ragioni di questo fallimento?

Storytelling aziendale e web reputation

Prima di rispondere alla domanda è bene fare un passo indietro. Per essere riconoscibili ed avere successo tutte le campagne delle aziende (specie di grandi dimensioni) devono essere in linea con lo storytelling aziendale, che altro non è che la narrazione di marca: un racconto che dev’essere basato – o almeno dovrebbe – su un insieme di valori di cui un’azienda vuole farsi portatrice e per i quali vuole essere riconosciuta. Non solo bellezza, affidabilità, praticità (chi comprerebbe un cellulare brutto, inaffidabile e di grosse dimensioni?) ma anche – spesso e volentieri – valori immateriali come ad esempio il rispetto, nei confronti del cliente e nella società, le pari opportunità e la lotta alle discriminazioni. È dalla scelta dei valori e dal rispetto degli stessi che deriva una brand reputation (e una web reputation) degna di questo nome.

L’importanza della reciprocità

Nel suo libro “Le armi della persuasione” il decano del marketing Robert Cialdini individua la “reciprocità” come una delle sei categorie in cui rientrano le principali tecniche di persuasione efficace (le altre sono impegno e coerenza, riprova sociale, simpatia, autorità e scarsità). Un principio che, nella campagna di Trenitalia, non è certo rispettato. Ecco – in sintesi – ciò che l’azienda propone al suo cliente: una caramella gelèe Caffarel al limone in omaggio, ma solo l’otto marzo, solo se sei donna, solo se viaggi in Frecciarossa e in Executive e solo se acquisti un menù Easy Gourmet o usufruisci del servizio bar e ristorante, fino a esaurimento scorte. Trenitalia ha fallito, palesemente, nello sviluppare un’iniziativa in grado di soddisfare il cliente, offrendogli un benefit percepito come commisurato al prezzo pagato. Se il barista (lo fanno in tanti) mi offre una caramella con un caffè da un euro posso essere, istintivamente, contento del dono e decidere di tornare in quel bar, piuttosto che in un altro. Diverso se la stessa caramella è “donata” a seguito del pagamento di un biglietto (con una tariffa non base) e solo a determinate condizioni (essere donna, viaggiare l’otto marzo e sperare che le scorte non siano esaurite), chiaramente eccessive rispetto al minimo beneficio ricevuto.

Campagne belle ma inutili

Immaginate di essere responsabili dell’ufficio marketing e comunicazione di un colosso dell’energia, sul podio (per la precisione al terzo posto) delle aziende italiane con maggior fatturato. Immaginate di assumere i migliori consulenti, avvalervi di una delle agenzie pubblicitarie più note al mondo e di studiare nei minimi dettagli un piano di comunicazione per valorizzare al meglio la vostra brand reputation. Pensereste a un successo assicurato? Purtroppo non è il caso della campagna Enel “#Guerrieri”, letteralmente sommersa di critiche. Non perché ci fosse qualcosa di sbagliato nel messaggio in sé – persone comuni alle prese con le difficoltà della vita di tutti i giorni affrontate in modo eroico – quanto perché il pubblico, specie sui social network, percepì una distanza incolmabile fra l’immagine che l’azienda voleva dare e una serie di torti e disservizi subiti dall’azienda stessa. L’hashtag #guerrieri, sponsorizzato da Enel, ha spinto migliaia di utenti a definire “guerrieri” “quelli che ogni giorno, nei territori, si battono contro le centrali a carbone di Enel”, oppure “quelli che devono pagare la bolletta più cara d’Europa e sono in cassa integrazione”, solo per citare due esempi. In molti lamentavano grossi problemi con i call center che facevano perdere quel tempo prezioso che il “guerriero” moderno dovrebbe dedicare al lavoro, alla famiglia, ai problemi della vita quotidiana.

Prima regola: non offendere nessuno

Nel settembre del 2013 una dichiarazione del presidente del gruppo Barilla, Guido Barilla, diede vita a un vero e proprio caso internazionale. Ai microfoni de La Zanzara di Radio 24, sollecitato dal conduttore Giuseppe Cruciani, dichiarò: “Non farei mai uno spot con una famiglia omosessuale. Non per mancanza di rispetto ma perché non la penso come loro, la nostra è una famiglia classica dove la donna ha un ruolo fondamentale. Se i gay non sono d’accordo, possono sempre mangiare la pasta di un’altra marca”. L’opinione, di per sé non volutamente offensiva, scatenò un’animata protesta della comunità gay a livello mondiale, che promosse il boicottaggio del marchio. Costretto a correre ai ripari Barilla fece un video su YouTube spiegando di “aver sempre rispettato ogni persona, anche gli omosessuali e le loro famiglie”, aggiungendo che “sull’evoluzione della famiglia ho molto da imparare”, e impegnandosi a “incontrare gli esponenti delle associazioni che meglio rappresentano l’evoluzione della famiglia tra i quali coloro che ho offeso con le mie parole”. In aggiunta l’azienda istituì poi il “Diversity & Inclusion Board’, creò corsi anti-discriminazione, fece donazioni a gruppi Lgbt ed assunse come consulente Daxid Mixner, scrittore e attivista della comunità omosessuale: ciò fino a a ottenere “punteggio perfetto” dalla Human Right Campaign, un’importante associazione per i diritti degli omosessuali. La stessa Trenitalia ha ricevuto critiche per la Caramella Caffarel, vista come offensiva nei confronti del genere femminile (come a dire: “abbiamo bisogno di parità, non di caramelle”). Non offendere è fondamentale se si vuole evitare di essere costretti a brusche inversioni di marcia. Dopo le dichiarazioni di Guido, Barilla è stata – tra le altre cose – costretta a rinunciare a un marchio distintivo come la “famiglia Mulino Bianco”, in favore della pubblicità di Antonio Banderas con la gallina, protagonista di molte ironie sul web e criticata da alcuni gruppi animalisti per presunto maltrattamento di animali (non offendere la sensibilità di nessuno è davvero difficile). Inoltre il fatto di passare in pochi mesi da azienda pro famiglia tradizionale a gay friendly – se da un lato ha placato le critiche delle associazioni Lgbt – ha dall’altro dato l’impressione di essere poco sincero e deluso i sostenitori della famiglia tradizionale (la pasta la mangiano tutti). Lo stesso rischio che si assume Ikea con le proprie pubblicità con immagini di famiglie gay accompagnate dal payoff “siamo aperti a tutte le famiglie”: un’idea molto libera di società, assodata nei paesi scandinavi, non è per forza presente anche in tutte le altre nazioni in cui la multinazionale ha le sue sedi.

Golia contro Davide

Neanche le grandi multinazionali americane sono immuni da errori, quando si parla di comunicazione. La Coca Cola Company, promotrice dell’ottima iniziativa editoriale Coca-Cola Journey, è stata più volte criticata sui social network per il fatto di raccontare le storie e mostrare le foto solo di ragazzi giovani, sani e fisicamente prestanti. Per molti utenti una vera ipocrisia di fronte al dilagare, negli Stati Uniti, dell’obesità e di altri grossi problemi di salute legati all’abuso di bibite zuccherate ed energetiche. Obiettare che dell’abuso è responsabile il singolo sarebbe inefficace di fronte al framing che giudica, a ragione o a torto, le multinazionali come colossi di fronte ai quali nulla può il singolo. Un errore in cui è caduta, ancor più ingenuamente, Pepsico citando in giudizio per violazione di un brevetto quattro agricoltori dell’India, cui ha chiesto un risarcimento di 10 milioni di rupie (142mila dollari). Una cifra grande per tutti, che diventa gigantesca in una nazione con un reddito medio pro capite di duemila dollari l’anno. Impossibile non sollevare simpatia per i “Davide” del XXI secolo, come quella che ha attirato a sé Dewayne Lee Johnson, vittima del glifosato, vincendo una causa multimilionaria contro un gigante come Monsanto. Piuttosto illuminante l’errore dei colossi della musica come EMI, Sony, Universal, Univision e Time Warner che, uniti nella  Recording Industry Association of America, fra il 2005 e il 2008 fecero causa a circa 20mila semplici cittadini accusati di aver scaricato illegalmente (e in alcuni casi distribuito) brani musicali. Ad alcuni di loro vennero chiesti risarcimenti superiori ai 200mila dollari, che non erano in grado di pagare. Oltre a non avere il ritorno economico sperato, non arrestare la pirateria e non aumentare il numero di album venduti legalmente, le cause attirarono molte antipatie sulle grandi major che – anche grazie alle innovazioni tecnologiche – cambiarono strategia commerciale: accettarono la contrazione delle vendite di album, puntando di più su introiti pubblicitari (anche dei video su YouTube), concerti, merchandising e tutto ciò per cui la fan base di un artista o un gruppo musicale era disposta a spendere i propri soldi.

La ricetta del successo? Un mix di affidabilità, sobrietà e onestà

Cosa dovrebbero insegnare questi fallimenti al comunicatore? Anzitutto ad avere un po’ di umiltà. Non importa quanto grande tu sia: viviamo in un mondo complesso, fatto di tante sensibilità (che a volte diventano iper-sensibilità) e con tanta concorrenza da rendere necessario un approccio orientato al cliente, visto come persona e non solo come consumatore. Garantire la qualità del prodotto dovrebbe essere scontato, così come mettere in piedi un servizio clienti efficiente, che sappia davvero risolvere i problemi (e questo è purtroppo tutt’altro che scontato). Inoltre bisogna lanciare messaggi chiari e inclusivi – senza risultare eccessivi o peggio ancora finti – in cui tutti si possano riconoscere, con l’obiettivo finale di dar vita a una vera e propria community di persone diversissime fra loro, accomunate dalla passione per il brand. Oggi è difficile pensare a un marchio che segua questi passaggi meglio di quanto faccia Apple. Anche per le aziende italiane, spesso forti di grandi eccellenze, ci sono moltissimi spazi da riempire e occasioni da cogliere.



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