Tricot Chic. Il pret-à-porter Made in Italy

Tricot Chic. Il pret-à-porter Made in Italy

Intervista a Flavio Nava – CEO Tricot Chic

A cura di Luigi Torriani

TRICOT CHIC – Azienda fondata nel 1972, con sede a Paderno d’Adda (in provincia di Lecco), Tricot Chic è specializzata nella produzione di pret-à-porter donna.

Come si costruisce una collezione di moda di alto livello come quella di Tricot Chic? Attraverso quale percorso creativo e di ricerca siete riusciti a imporvi sul mercato come brand fashion di primo piano?

La maglieria è il nostro dna e la nostra storia. Partiamo dal filo e gli diamo una tridimensionalità, lo lavoriamo e lo elaboriamo creando delle maglie di alta qualità, che vengono vendute in oltre 1.200 negozi di fascia alta in tutto il mondo. La nostra maggiore qualità sta forse nell’aver trovato negli anni il giusto mix tra creatività e capacità tecniche. La maglieria è un lavoro di squadra nel quale non basta avere uno spirito creativo e delle buone idee. È fondamentale capire se e quando le idee sono realizzabili al meglio e sono traducibili in un prodotto che ha un senso. Nel nostro settore non è semplice oggi essere competitivi. Negli ultimi anni l’abbigliamento è diventato sempre più “democratico” e i prezzi sono scesi. I grandi brand internazionali non hanno problemi, ma per le PMI del fashion – anche se propongono prodotti di altissima qualità – le cose non sono semplici. Per questo abbiamo fatto degli studi e delle valutazioni e abbiamo deciso – per i prossimi anni – di allargare la nostra offerta. Continueremo a proporre – naturalmente – le nostre collezioni di maglie fashion di alto livello, ma affiancheremo (stiamo già affiancando) a questa produzione un catalogo di maglie di servizio meno costose, prodotti generalisti e funzionali che non mirano a imporre gusti e tendenze. C’è una forte domanda di maglie di tipo funzionale e noi intendiamo seguire anche questo mercato. Stiamo lavorando bene, sono ottimista e credo che potremo crescere molto nei prossimi anni. Ma mi lasci aggiungere una considerazione critica che riguarda il nostro settore per come si è evoluto in Italia negli ultimi anni. Nella maglieria i processi di lavorazione sono lunghi e richiedono molta manualità. Le nostre maglie non possono essere semplicemente cucite, vanno rifinite usando l’ago. E parliamoci chiaro: quante sono oggi le ragazze italiane di 18 anni che sanno fare questi lavori? Pochissime. Noi collaboriamo con le scuole e prendiamo spesso delle stagiste, ma sono sempre “generiche”, non hanno una formazione specifica. Quello della maglieria è un caso emblematico di un problema più generale: le scuole professionali in Germania hanno 900mila studenti, in Italia sono circa 8mila. La scuola italiana deve tornare a trasmettere una passione per il lavoro manuale, bisogna ri-allenare i giovani al lavoro facendo fare più pratica che teoria, insegnando non solo a fare lavori da ufficio come “periti chimici” ma anche a rimagliare e a cucire bene. Io sono disposto a pagare bene chi sa lavorare bene manualmente, ma negli ultimi anni ho crescenti difficoltà a trovare figure di questo genere, non mi arriva nessuno che è già capace di lavorare con l’ago, devo formarli tutti io in azienda. Sono veramente dispiaciuto perché un tempo l’Italia era il Paese leader nella manifattura e nell’artigianato, e oggi stiamo disperdendo un patrimonio importantissimo. Anche perché i giovani hanno spesso una mentalità sbagliata, sono poco flessibili, se li assumi a tempo indeterminato a 25 anni si sentono già arrivati e pensano di andare avanti a fare le stesse identiche cose per il resto della loro vita, senza il desiderio di crescere e di imparare cose nuove.

 

Tricot Chic mantiene la propria manifattura interamente in Italia. Quanto conta sui mercati internazionali il marchio Made in Italy? L’italianità di un prodotto tessile e fashion è ancora oggi – e in che misura rispetto al passato – un valore aggiunto?

L’italianità è ancora oggi un valore aggiunto, ma lo è soprattutto al di fuori dell’Europa, e in particolare negli Stati Uniti, in Cina e in Giappone, Paesi nei quali – in ambio fashion – presentare un vestito come italiano dà un grande vantaggio in termini di immagine. In Europa, e specialmente tra le nuove generazioni, dire che un capo d’abbigliamento è italiano lascia quasi indifferenti o comunque fa meno “impressione” di quanta non ne facesse un tempo. Credo che gli stessi italiani debbano riscoprire un orgoglio che negli ultimi anni hanno smarrito. Mi dà molto da pensare – per esempio – il fatto che i curricula che riceviamo siano scritti sempre più spesso in inglese, anche quando il candidato è un ragazzo italiano. Avrà magari studiato negli Stati Uniti, benissimo, ma si candida a lavorare per un’azienda italiana, per cui non vedo proprio perché dovrebbe “vergognarsi” a scrivere in italiano.

 

Tricot Chic vende in tutto il mondo. Oltre al mercato italiano, quali sono sono per voi i mercati più interessanti? E come vi muovete sul piano commerciale e del marketing per essere competitivi in uno scenario altamente concorrenziale e globalizzato come quello odierno?

In Europa i mercati per noi più redditizi sono la Francia al primo posto, e a seguire la Germania e la Spagna. Al di fuori dell’Europa i Paesi nei quali vendiamo di più sono gli Stati Uniti, il Giappone e la Cina. In Sudamerica ci sono dei punti vendita che propongono i nostri prodotti ma c’è un problema di competitività legato alle leggi vigenti in quei Paesi. Penso soprattutto al Brasile, Paese nel quale le nostre magliette subiscono dazi (al 43%!) che ci fanno evidentemente andare fuori prezzo. In Russia fino a qualche anno fa vendevamo bene (intorno ai 4 milioni all’anno), ma ci sono state forti tensioni politiche internazionali, il rublo è salito, e abbiamo perso praticamente il 50% del fatturato. Dal punto di vista commerciale puntiamo innanzitutto sui nostri agenti (negli Stati Uniti, per esempio, abbiamo due agenti, uno per la costa Ovest e uno per la costa Est), e in secondo luogo su importatori e distributori, che lavorano molto bene – per esempio – sui mercati asiatici. Sono naturalmente importanti anche le fiere (New York, Parigi, Londra, Dusseldorf, ecc.), ed è imprescindibile il web. Siamo in partenza proprio in questo periodo con un nostro sito e-commerce, che gestiremo in proprio continuando a mantenere un rapporto diretto con i clienti. Un problema commerciale nel nostro settore è oggi quello della diffusione della formula del conto vendita per i negozi, che negli Stati Uniti è da tempo frequente e che ora sta prendendo piede anche in Italia e in Europa. In sintesi: il negozio di abbigliamento non acquista la merce ma semplicemente la espone, pagando poi il venduto con rendicontazione periodica. Il commerciante è invogliato al massimo perché non ha nessun rischio e non deve fare nessun investimento, e le aziende (soprattutto i grandi marchi) riescono in questo modo a “occupare” negozi e vetrine, facendo girare la merce. Il ricambio dei prodotti è continuo, e ciò che si stenta a vendere viene presto rimpiazzato. Questo sistema ha sicuramente degli aspetti positivi ma ne ha anche tanti negativi, è rischioso e sta contribuendo – in molte aziende di fashion anche importanti – a creare problemi gravi nei bilanci. L’azienda produce infatti della merce, la distribuisce e non sa né quanto né quando potrà di fatto incassare. Inoltre nei negozianti si diffonde – in questo modo – una mentalità che non contempla in alcun modo il concetto di “investimento” e di acquisto della merce con pagamento immediato, e che crea difficoltà nel fare valutazioni sul medio termine. È difficile oggi trovare dei negozianti disposti a investire soldi su una collezione che sarà disponibile tra sei mesi, bisogna aspettare per evitare di produrre quantità eccessive, e almeno il 30% della collezione finisce per essere creata – di fatto – all’ultimo momento. Il contesto attuale dunque non è semplice, ma credo di poter dire che Tricot Chic è e continuerà ad essere in grado di muoversi in modo competitivo.

 

La moda femminile è in continua evoluzione, e Tricot Chic – azienda fondata nel 1972 – ha già attraversato quasi cinquant’anni di storia. Quali sono state le grandi tendenze del pret à porter donna, quanto e come sono cambiati il senso estetico e il gusto delle persone, e quali potrebbero essere i trend nei prossimi anni?

La moda femminile è ciclica, e nella sua storia si succedono delle vere e proprie stagioni o epoche, che vengono inaugurate dalle scelte estetiche delle élites (aziende e brand del settore moda e fashion, opinion leader, personaggi celebri), poi penetrano nella fascia media della popolazione, e infine si diffondono a livello popolare, segnando per alcuni anni (in genere una decina di anni o poco più) il gusto proprio di un certo momento storico. Finito un ciclo, si passa attraverso un periodo di transizione che può durare anche diversi anni, e infine inizia un nuovo ciclo, e così via. Sarebbe ovviamente impossibile in questa sede ricostruire l’intera storia della moda. Ma voglio soffermarmi su quello che è stato il grande ciclo della moda femminile negli anni Ottanta e Novanta, e su quello che è il ciclo attuale che stiamo attraversando. La fase anni Ottanta e Novanta – che ad alto livello ha come figura emblematica Roberto Cavalli – è quella che chiamerei della “donna appariscente”, con un abbigliamento che punta sull’originalità nelle forme e nei colori. Oggi siamo invece in una fase che definirei della “perfezione informale”, nell’epoca dello sporty chic, ovvero: vestire sportivi ma bene. I materiali devono dare un’idea di artigianalità e insieme di contemporaneità, senza troppi orpelli e senza la ricerca di originalità a tutti i costi.



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