Coronavirus. Il punto di vista degli imprenditori tessili – MASSIMO MARCHI

Coronavirus. Il punto di vista degli imprenditori tessili – MASSIMO MARCHI

Intervista a Massimo Marchi – Presidente Marchi & Fildi S.p.a. / Filidea S.r.l.

A cura di Luigi Torriani

MARCHI & FILDI – Gruppo tessile italiano specializzato nella filatura e nella tintoria, fondato nel 1965 e con sede centrale a Biella, Marchi & Fildi è presente con sedi produttive anche in Turchia, Germania e in Brasile, e ha oggi 550 dipendenti e un fatturato di oltre 70 milioni. Del Gruppo fa parte anche la società Filidea S.r.l.  

Quale sarà secondo lei l’impatto dell’emergenza Coronavirus sul settore tessile italiano, e che cosa chiede – come imprenditore – alla politica italiana ed europea?

L’impatto sarà molto pesante, per tutta l’economia italiana, a partire dai settori storicamente per noi strategici, dal turismo all’industria metalmeccanica al tessile-abbigliamento. Alcuni comparti, come il tessile medicale, stanno lavorando molto proprio in virtù della situazione emergenziale che stiamo attraversando, ma il quadro generale è sicuramente preoccupante. In questi giorni si sta parlando molto, e in termini elogiativi, delle aziende tessili che riconvertono la produzione mettendo sul mercato e fornendo ad enti pubblici le mascherine. In questo momento le mascherine sono fondamentali, e necessariamente dobbiamo produrle in Italia, rendendoci conto, forse, nell’occasione, che la delocalizzazione che è stata fatta in passato può creare problemi enormi in situazioni inusualmente complicate come quella che stiamo vivendo ora. Detto ciò, trascorso questo periodo, e una volta tornati alla normalità, torneremo a compare mascherine dalla Cina, perché costano molto meno. Sbaglia chi pensa di programmare il futuro sull’emergenza. Tutto ciò se non cambieranno i paradigmi e se non si prenderà coscienza che, senza pensare di tornare all’autarchia, non è né saggio né lungimirante distruggere totalmente delle filiere rendendosi totalmente dipendenti dal far east. Pensiamo, per esempio, cosa è successo nel mondo dei coloranti chimici negli ultimi anni. 

La priorità in questo momento riguarda la situazione sanitaria, e la prima cosa da fare – ovviamente – è limitare il contagio e cercare in ogni modo di aiutare chi si è ammalato e di incoraggiare le persone disorientate e impaurite (l’animo umano di fronte a questi eventi non cambia, è lo stesso che troviamo nelle bellissime pagine dei Promessi Sposi sulla peste). Quando potremo finalmente voltare pagina, e l’emergenza sanitaria sarà cessata, dovremo però cercare di capire come salvare il nostro Paese dal punto di vista economico. L’economia italiana – per usare una metafora più che mai attuale – è oggi come  un novantenne che si ritrova in mezzo al contagio del Coronavirus. Le nostre fragilità strutturali, il debito pubblico altissimo e le criticità che ci trasciniamo da decenni rendono sicuramente arduo salvare il “paziente”. Certamente dobbiamo farlo, e ce la potremo fare soltanto in un modo: puntando sempre di più su un’integrazione europea forte.

Dobbiamo capire che l’Europa deve diventare un unico grande Paese, dobbiamo creare gli “Stati Uniti d’Europa” se vogliamo competere con Usa e Cina. In questo momento certi atteggiamenti miopi, provinciali e di chiusura non hanno senso, e ci condannano a morte certa. L’Italia in questo momento sta facendo tutto  quello che può fare di fronte a un’emergenza epocale, si sta muovendo in modo più che decoroso e sta anche riscoprendo – nelle stragrande maggioranza delle persone – una coscienza civile che fa ben sperare. Ma da soli non ce la possiamo fare. Sento persone che dicono: “bisogna mettere molti più soldi per aiutare le aziende ed i privati , quello che sta facendo il governo non basta”. Sono d’accordo, ma dove li troviamo i soldi? L’unica chance di farcela è un’Europa unita che a sua volta cambi, prendendo coscienza che la forza di oggi di qualcuno è comunque legata ad un sistema, e prendendo coscienza della nuova realtà mondiale, che si sta sempre più polarizzando, trovi il coraggio e la lungimiranza, che c’è stata nel dopoguerra quando è stato creato l’embrione di Europa come comunità di Nazioni,  per fare il salto verso una confederazione completa.

 

L’emergenza Coronavirus ha costretto le aziende ad adottare in tempi rapidissimi lo smart working per i dipendenti. Può essere un’opportunità anche per il futuro?

Sicuramente sì, e questo è uno dei pochi aspetti positivi della situazione che stiamo attraversando. Lo smart working è uno strumento utile, ed è stato un errore – comune alla gran parte delle aziende italiane – sottovalutarne in passato le potenzialità. È però uno strumento che va gestito con attenzione, che non si può applicare a tutto e che non si dovrebbe mai implementare senza una strategia e una visione d’insieme. È fondamentale (ed è bello!) anche interagire e fare squadra, in un’azienda, viverla per quello che è: una comunità.  Lo smart working – passata l’emergenza – andrà incoraggiato sicuramente, ma entro certi limiti.    

 



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