Intervista a Massimo Temporelli
MASSIMO TEMPORELLI, Fisico e storico delle tecnologie, è il fondatore del primo Fablab di Milano. Tiene lezioni sul tema dell’innovazione nelle più importanti università italiane, è consulente per le aziende, collabora con Sky e dirige la collana Microscopi dell’editore Hoepli. Ha pubblicato il libro “Innovatori. Come pensano le persone che cambiano il mondo”, libro che è stato presentato a maggio 2017 in una serata condotta da Francesco Robustella e Giuseppe Romeo, Digital Project Manager e Content & Social Media Manager del Network Datasys.
L’Italia certamente non è la Silicon Valley, e le aziende che nell’ultimo decennio hanno cambiato il mondo non sono italiane. Però in Italia non sono mancati e non mancano gli innovatori e le persone che guardano avanti, come ci ricorda Massimo Sideri in un bel libro pubblicato da Bompiani – “La sindrome di Eustachio. Storia italiana delle scoperte dimenticate”. Posto che ci muoviamo in un contesto difficile perché molto oneroso in termini fiscali e burocratici, che cosa possono e che cosa dovrebbero fare gli imprenditori italiani per generare innovazione e business?
Parliamoci chiaro: oggi i grandi player sono altrove, e l’Italia nel business legato all’innovazione è un Paese periferico. Questo è un dato di fatto, e non ha senso negarlo. Tu parli di problemi legati all’eccessivo peso di tasse e burocrazia: anche questo è vero, e personalmente credo che andrebbero studiate delle forme di fiscalità molto agevolata per i giovani e per le startup nei primi anni di vita, cercando al tempo stesso di mettere in atto un sistema di controlli per evitare truffe e abusi (il “classico” caso di chi apre e chiude società per eludere le tasse). Detto questo, personalmente non amo la cultura del piagnisteo e credo che ridurre i problemi del nostro Paese a una questione meramente fiscale sia sbagliato. In Italia manca una cultura forte dell’innovazione, nelle famiglie, nelle scuole e nelle aziende, e non abbiamo l’intraprendenza degli americani. E infatti, storicamente, siamo sempre arrivati in ritardo: nella Prima Rivoluzione Industriale (macchine a vapore, carbone, tessile, metallurgia), nella Seconda Rivoluzione Industriale (elettricità, chimica, petrolio) e nella Terza Rivoluzione Industriale (informatica, elettronica). Oggi siamo agli inizi della Quarta Rivoluzione Industriale (industria 4.0, digitalizzazione, interconnessione), e l’Italia – per il momento – è in linea con gli altri Paesi, non è in ritardo. E parliamo di una rivoluzione che – a differenza delle precedenti – è più una rivoluzione di capacità che di capitali, più di progettualità che di soldi, per cui abbiamo la possibilità di esserci e di essere competitivi. Che cosa dobbiamo fare? Dobbiamo – a mio parere – cercare di creare una sorta di via italiana alla digitalizzazione, puntando sulle nostre attività artigianali e portando il digitale nelle botteghe. Negli Stati Uniti quasi non esiste l’artigiano, da noi sì e deve essere questo l’orizzonte in cui muoversi: il tornio che dialoga con lo smartphone. Dobbiamo cercare di rilanciare la bottega artigianale italiana digitalizzandola, lavorando su tanti e diffusi piccoli business che affondano le radici nelle nostre capacità e tradizioni ma che possono rinascere e rivivere soltanto se diventano 4.0, se no muoiono. Per fare tutto questo sono convinto che sia fondamentale oggi un’alleanza intergenerazionale nelle aziende: gli imprenditori, la cui esperienza certamente è importante e non è facile da sostituire, devono però anche aprirsi ai suggerimenti dei giovani e devono lasciare più spazio ai propri figli, lavorando insieme a loro per rilanciare il business.
Quando si parla di innovazione si parla anche di aziende digitali che investono sul fronte web. Chi, come noi del gruppo Datasys & Datatex, offre soluzioni informatiche e web and app integrate a 360°, si rende conto che sulla parte web (creazione siti, e-commerce, marketing) le cifre investite dai clienti sono ad oggi decisamente meno importanti (con qualche eccezione) rispetto alle cifre investite dagli stessi per le nostre soluzioni software e gestionali. Si dice e si ripete continuamente che per un’azienda oggi è fondamentale essere presenti al meglio online affidandosi a dei professionisti, a parole sono (quasi) tutti d’accordo, ma poi è difficile in concreto convincere aziende clienti – anche di dimensioni e fatturati rilevanti – ad aggiungere ai nostri software anche i nostri servizi web, e ad investire con cifre significative anche su questo fronte. Se lei fosse un nostro commerciale che cosa direbbe a un imprenditore nostro cliente per fargli capire che se non investe tanto e bene nell’area web non ha futuro? Più in generale: come è possibile convincere gli imprenditori italiani a investire in innovazione?
Se fossi un vostro commerciale che cosa direi agli imprenditori clienti per convincerli a investire sul fronte web e digitalizzazione? È molto semplice, direi la verità, anche se mi rendo conto che può suonare un po’ brutale: tu imprenditore che pensi ancora oggi che Facebook sia solo una perdita di tempo e che il web marketing è inutile sei come un imprenditore della radio che nel 1946 diceva che la televisione non avrebbe avuto un futuro. Specialmente quando le aziende sono vecchie, la percezione dei titolari è distorta, e la storia insegna che chi ha già attraversato una rivoluzione tende a considerare la rivoluzione successiva – se fa in tempo a viverne gli inizi – come qualcosa di insensato o di sopravvalutato. Ma la forza storica del cambiamento a un certo punto rompe gli argini, e se non si provvede prima ad attrezzarsi dopo diventa troppo tardi. Un imprenditore che oggi ha sessanta o settant’anni ha già attraversato la rivoluzione informatica, e ha investito molto sulla parte software qualche decennio fa, e magari su questo fronte investe ancora oggi, mentre considera il web come una perdita di tempo. Si sbaglia, e dovrebbe – con coraggio e umiltà – aprirsi a una rivoluzione che è già in atto.
L’innovazione è più una questione di attitudine personale o è più un fatto di educazione e ambiente? Guardando alle biografie dei grandi innovatori, quanto peso hanno avuto le loro capacità e tendenze caratteriali o psicologiche e quanto peso ha avuto il contesto storico e geografico nel quale hanno vissuto?
Hanno un peso entrambi gli elementi, l’attitudine personale e l’ambiente. E all’interno di questi due elementi i fattori che possono avere un influsso nel campo dell’innovazione sono innumerevoli. Probabilmente – per fare un esempio – anche elementi strettamente geografici come i grandi orizzonti e i giganteschi spazi degli Stati Uniti (molto diversi dagli spazi europei, più “angusti”) possono giocare un ruolo a livello psicologico, favorendo un’apertura mentale degli abitanti. In ogni caso mi sembra più interessante concentrarsi su quegli elementi che possono essere modificati, perché la geografia e le attitudini personali sono dati di fatto. Non tutti hanno il carattere, l’attitudine, la predisposizione e il talento per essere dalla parte dell’innovazione, ed è giusto così. Non è obbligatorio essere innovatori, ci sono moltissime persone che vivono bene, sono ottimi cittadini e sono validissimi professionisti nel loro lavoro ma sono “conservatori”, sono poco propensi al cambiamento, e non c’è niente di male. È chiaro però che una società – come anche, su scala più ridotta, un’azienda – cresce e migliora soltanto se ha al suo interno alcuni innovatori, che rompono gli schemi trascinandosi poi dietro nel tempo anche i “conservatori”, altrimenti non avremmo progressi di alcun genere. L’educazione in questo è importante non meno dell’attitudine personale, e sull’educazione si può – e a mio avviso si deve – intervenire. Nelle famiglie e nelle scuole italiane è molto raro trovare genitori e insegnanti che cercano di stimolare nei ragazzi il gusto e la curiosità per il nuovo. In Italia – e più in generale in Europa – la tradizione vince sull’innovazione, a scuola come a casa. Io credo che genitori ed educatori dovrebbero premiare di più l’originalità nei ragazzi, dovrebbero stimolare maggiormente la creatività e la voglia di esplorare e di ricercare. Se guardiamo alle biografie dei grandi innovatori, scopriamo che nella gran parte dei casi costoro non sono stati studenti particolarmente brillanti, e in non pochi casi hanno sofferto le maglie per loro troppo strette dell’educazione e della formazione scolastica mainstream. L’innovatore è tale proprio in quanto prende le distanze da genitori e professori, e innova perché rompe gli schemi. Naturalmente – sia ben chiaro – genitori e insegnanti devono fornire degli schemi, altrimenti i ragazzi non diventano innovatori ma zucche vuote. Però – dopo aver fornito gli schemi – bisogna poi anche insegnare a dubitare, a mettere in discussione, a riflettere con la propria testa, a essere aperti al nuovo e al cambiamento, altrimenti si creano generazioni di persone che quando cresceranno saranno incapaci di innovare. Chiudo con una precisazione: è molto diffusa l’idea dell’innovatore come di una persona che fa fortuna grazie a delle intuizioni geniali, mentre gli altri “mediocri” lavorano dalla mattina alla sera senza creare niente di interessante. Questa visione è riduttiva e fuorviante: per rompere gli schemi bisogna prima conoscere gli schemi stessi, e per conoscere bisogna leggere, bisogna studiare, bisogna lavorare. Se guardiamo alle biografie dei grandi innovatori che hanno cambiato la storia dell’umanità scopriamo una costante: l’innovatore, magari insofferente alle rigide regole scolastiche e poco preciso o brillante nei “compitini”, è però sempre una persona che legge, che studia e che lavora più della media delle altre persone. Non soltanto meglio, ma anche di più. Chi pensa di cambiare il mondo stando seduto dalla mattina alla sera su un prato in attesa di intuizioni geniali sarà magari un “anarcoide” o uno spirito libero, ma certamente non è e non potrà diventare un grande innovatore.