STORIA DELLE EPIDEMIE NEL MONDO
Scrive la virologa Ilaria Capua in Il dopo, il virus che ci ha costretto a cambiare mappa mentale: “Se potessimo rovesciarci, esponendo ciò che abbiamo dentro, e guardandoci con gli occhi di un virus, scopriremmo che tutti gli uomini e tutte le donne sono vastissime praterie di recettori. Siamo animali. Tra gli animali, l’Homo sapiens è l’unico ad aver coscienza di sé e della propria finitezza. Di fronte al pericolo scappa, sì, per istinto di sopravvivenza, ma non solo: anche perché sa che, morendo, smetterà di esistere – quanto meno in quella specifica forma, – e all’idea prova paura. Per questo abbiamo rimosso la morte. Per questo abbiamo maturato, in Occidente, un fare e un sapere medici che puntano letteralmente all’immortalità”.
Infatti, in questo nostro tempo di Covid19-Coronavirus la stessa politica si è affidata alla scienza. Il rapporto tra scienza e politica, nell’attuale emergenza sanitaria, si è intensificato. E’ cresciuta la domanda di evidenza in tempi rapidi e l’offerta degli scienziati ha reagito, riorientando la loro ricerca nei confronti di un’inaspettata e sconosciuta epidemia.
WUHAN
Tutto è iniziato alla fine del 2019, quando i medici degli ospedali di Wuhan, nella Cina centrale, si trovano ad affrontare una strana sindrome respiratoria che pare legata al mercato ittico della città, dove oltre al pesce, si vende ogni tipo di animale commestibile, vivo o morto.
Mentre i malati si moltiplicano e alcuni muoiono per una polmonite virale particolarmente aggressiva, i laboratori di ricerca riescono rapidamente a isolare il responsabile della malattia: è un nuovo coronavirus, simile a quello della SARS che tra il 2002 e il 2003 aveva spaventato il mondo.
Nel frattempo la Cina non solo isola subito il virus, ma ne caratterizza il genòma, non mette però a disposizione degli scienziati di tutto il mondo tutti i dati che sarebbero serviti a contrastarlo in tempi brevi e in maniera efficace.
Non solo, ma si deve purtroppo osservare che i primi 27 casi di “polmonite sospetta” vengono registrati nella città di Wuhan alla fine di novembre 2019, ma le autorità cinesi lo fanno sapere con un laconico comunicato alla fine di dicembre.
Dopo 23 giorni da questo comunicato, precisamente il 23 gennaio successivo, la città viene blindata: una misura che non ha precedenti nella storia del genere umano: 11 milioni di persone in quarantena.
A questo punto il mondo entra in allarme, perché i primi casi iniziano a manifestarsi anche in altre nazioni, e tra le prime l’Italia, che davanti ai contagi e alle morti provocati dal coronavirus, è costretta a prendere misure senza precedenti come le zone rosse nei paesi di Alzano, di Nembro, di Codogno e Vo’, poi di Brescia e Bergamo per giungere alla decisione estrema del Lockdawn totale in tutto il Paese nei mesi di marzo, aprile e prima decade di maggio 2020.
La reazione di molti altri Paesi è invece estremamente tiepida; del virus si sa poco e molti esperti incominciano a sostenere che l’unico modo per bloccare questo virus sia la quarantena.
C’è chi propone che chiunque ritorni dalla Cina debba essere isolato, ma c’è chi grida al razzismo, chi vede in questo una discriminazione.
C’è di più, come nei Promessi sposi, anche in questo caso ci sono i don Ferrante che negano ideologicamente l’esistenza del rischio del diffondersi del contagio e fanno finta di niente.
Purtroppo, ben presto si viene travolti dagli eventi: il virus, come puntualmente previsto dagli scienziati, arrivato dalla Cina, incomincia a diffondersi a tal punto che anche i più restii sono costretti a rendersi conto che sta scoppiando un’inaspettata epidemia, la quale non tarderà ad assumere la dimensione di vera e propria pandemia.
BATTERI E VIRUS
Le epidemie e le pandemie sono causate da batteri o da virus. Il batterio è un microrganismo, che, come lo streptococco, che ci causa la tonsillite, o la Yersina pestis, che causa la peste, pur essendo invisibile ad occhio nudo, è un’entità viva e definita e riesce a vivere e a replicarsi autonomamente. Il virus invece non solo è molto piccolo, ma è anche qualcosa di unico, strano e intrigante, perché è un qualcosa che riesce a vivere e a replicarsi soltanto all’interno di un ospite. Esso è tecnicamente chiamato “parassita intracellulare obbligato”, perché sfrutta tutti i meccanismi di una cellula a suo vantaggio all’interno di essa e non all’esterno e non ha alternative. O si replica all’interno di una cellula, o non si replica e muore. Insomma, il virus è legato all’ospite, che può danneggiare, anzi effettivamente lo danneggia, spesso fino a farlo morire.
Ma morto l’ospite, sparisce anche lui.
Per questo il virus, oltre a infettare un individuo, replicandosi nelle sue cellule senza ucciderlo, deve imparare a uscire dal primo ospite, nel quale si sta replicando, per entrare in un secondo ospite e replicarsi anche dentro di lui, e poi passare a un terzo, a un quarto, a quinto ospite e così via. Solo in questo modo potrà evitare l’estinzione.
Questo trasmettersi da un individuo all’altro si chiama infezione. Saltare da un uomo a un altro non è facilissimo, e per farlo i virus sono costretti prima, attraverso un percorso molto complicato, a replicarsi all’interno di un soggetto e poi passare da un individuo infettato a uno sano.
In che cosa consiste allora la vittoria per un virus ? Risponde il virologo Roberto Burioni: “In una parola, fantastica per i virus e terribile per noi: epidemia!”
LA PESTE DI ATENE
La storia conosce tante epidemie e pandemie. La prima di cui abbiamo notizia è la peste scoppiata ad Atene nell’estate del 431 a. C. La città è impegnata nella guerra del Peloponneso contro Sparta (431 – 404 a. C.). La pestilenza ci è narrata da Tucidide, anche lui ammalatosi e scampato tuttavia dalla morte. Lo storico non si limita a descrivere con il suo stile inimitabile la sintomatologia dell’epidemia bensì anche le conseguenze che essa comporta alle istituzioni e alla vita morale della città. Precisa infatti: “Il morbo dette l’inizio a numerose infrazioni delle leggi…nessun timore degli déi o legge degli uomini li tratteneva”.
Le epidemie non si limitano infatti a uccidere gli uomini ma hanno anche conseguenze profonde su una società e la sua storia. Questo è vero proprio a partire da Atene. Sono state le perdite provocate dalla pestilenza, e in primo luogo la morte di Pericle, il leader politico, che incarnava lo spirito della democrazia ateniese, a decidere la vittoria di Sparta nella guerra del Peloponneso e il declino dei rivali.
Refrattario ad ogni tentazione sentimentale o moralistica, Tucidide si dichiara ignaro delle origini del contagio, che non imputa né all’ira degli dei né ai complotti degli uomini. Scrive infatti: “Si rumoreggiò che i Peloponnesiaci avessero infettato i pozzi. Ma io lascerò che coloro, i quali se ne intendono, indaghino le cause di tale infermità. Mi basterà dire come essa fu, perché anch’io ne soffrii e vidi gli altri soffrirne».
TRE EPIDEMIE DI PESTE
La storia della pestilenza narrata da Tucidide diventa il modello per le descrizioni delle epidemie e pandemie che nei secoli stermineranno periodicamente la popolazione mondiale. Sono state tre infatti le epidemie di peste, che non solo hanno ucciso, al momento dell’esplosione, circa un terzo della popolazione mondiale, ma sono state endemiche per secoli.
La prima di queste è la peste al tempo dell’imperatore bizantino Giustiniano, al potere dal 527 al 565 d. C. Il testimone oculare, Procopio di Cesarea, racconta che la peste era apparsa a metà estate del 541 a Pelusio, una città egiziana al margine del delta del Nilo, non distante dai porti sul Mar Rosso, dove approdavano le navi provenienti dall’Oriente. In breve tempo si contano 5000 morti al giorno, che poi diventano 10.000 e ancora di più; 16.000 al giorno secondo Giovanni di Efeso. Si ammala anche l’imperatore Giustiniano, che però sopravvive. L’epidemia, che ha percorso non solo l’Oriente ma anche l’ Africa del Nord e l’intera Europa, trasformandosi in vera e propria pandemia, è uno sterminio. Scrive Procopio: “ La peste comincia con febbre leggera. Nel giro di poche ore o di pochi giorni, i malati vedevano formarsi un bubbone non soltanto in quella parte del corpo che è sotto l’addome ed è chiamata inguine, ma anche sotto le ascelle, e in qualche caso anche dietro le orecchie o in un punto qualsiasi delle cosce”. Poi sopravviene il coma o il delirio oppure il bubbone va in cancrena. Altri segni di morte imminente sono la comparsa di pustole nerastre simili a lenticchie su tutto il corpo, o di punti neri sulle mani, o il mettersi a vomitare sangue. Procopio riferisce che, giunta al culmine, l’epidemia uccideva 10.000 persone al giorno nella sola capitale dell’impero, arrivando ad uccidere il 40% della popolazione cittadina. Per questo non si trovavano luoghi dove seppellire i morti e i cadaveri dovevano spesso essere lasciati all’aperto.
Procopio non aveva idea della causa della pestilenza, per cui poco mancò che “andasse distrutto l’intero genere umano”. Per lui non c’era alcuna possibilità di dare o anche immaginare una spiegazione; gli restava unicamente da attribuirla al “volere di Dio”. E’ un fatto che questa epidemia, insieme alla caduta dell’impero romano d’Occidente, segna la fine dell’Età antica e l’inizio del Medioevo.
Dopo la prima, devastante pandemia tra il 541 e il 544, la peste rimane per due secoli una minaccia costante, con esplosioni sparse nelle varie zone a intervalli irregolari.
L’ultima esplosione, terribile per violenza e ampiezza dei territori colpiti va dal 740 al 747. Fortunatamente, da quel momento la peste abbandona l’Europa per sei secoli per ragioni ignote.
LA PESTE NERA
Essa ritorna infatti a metà del XIV e precisamente nel 1347. E’ il ritorno in grande stile della peste in Europa: si tratta della “peste nera” o anche della “morte nera”. Tra il 1347 e il 1353 devasta il mondo conosciuto: conquista l’Italia, la Francia, l’Austria, la Germania, le Fiandre, punta verso i Paesi del Nord Europa fino alla Groenlandia e infine chiude il cerchio raggiungendo il confine invalicabile con le terre conquistate dai mongoli da cui tutto era partito.
Sono numerose le testimonianze dirette della peste nera. La più famosa, tra quelle letterarie, è quella con cui si apre il Decameron.
L’introduzione è il drammatico racconto della “mortifera pestilenza” che nella primavera del 1348 si abbatte su Firenze, uccidendo 100.000 persone. “Quanti valorosi uomini, quante belle donne, quanti leggiadri giovani, li quali non che altri, ma Galieno, Ippocrate o Esculapio avrieno giudicati sanissimi, la mattina desinarono co’ loro parenti, compagno e amici, che poi la sera vegnente appresso all’altro mondo cenaron con li loro passati”. Boccaccio descrive con precisione i sintomi della malattia: i bubboni all’inguine o sotto le ascelle, grossi come mele, poi le macchie nere sulla pelle e la morte nel giro di pochi giorni. Nota anche che il contagio si propaga attraverso le vesti e gli oggetti dei morti.
Ciò che caratterizza la descrizione della peste di Boccaccio non è tanto la sintomatologia dell’epidemia, pure attenta e scientifica come quella di Tucidide, ma è la dissoluzione di tutte le leggi sociali, dei costumi civili e raffinati, che per lui rivestono un carattere quasi sacro. In effetti, il disgusto per il corrompersi di tutte le norme sociali e dei costumi è il motivo conduttore di tutto il racconto della peste. La consapevolezza che la morte è in agguato spinge molti ad abbandonarsi ai piaceri. Altri, al contrario, praticano forme estreme di penitenza. Distruggono il legame sociale coloro che si chiudono in casa e vivono “da ogni altro separati”, senza più alcun contatto con il mondo esterno, senza neppure avere notizie della malattia e delle morti, ma lo stesso fanno anche quelli che si abbandonano ad ogni piacere e dissolutezza. E’ compromesso un valore sacro come la proprietà e il lavoro; ciascuno infatti abbandona le proprie case, ed esse diventano comuni a tutti, sono interrotte le fatiche e trascurati o addirittura dispersi i frutti del proprio lavoro: sono abbandonati anche i campi con la messe matura, che neppure viene mietuta e gli animali sono lasciati in balìa di se stessi. Di più, vien meno l’autorità della legge e di chi dovrebbe farla rispettare, per cui diviene lecito a ciascuno fare ciò che gli piace. La stessa città, luogo per eccellenza della socialità, si svuota e si fa deserta per le continue morti ma anche perché i cittadini l’abbandonano per la paura del contagio.
Cadono i vincoli di vicinanza, di parentela, addirittura si abbandonano fratelli, coniugi e figli, disgregando così la famiglia. Scompare il pudore, le giovani donne infatti non si vergognano a mostrarsi nude agli inservienti ”mercenari”.
Di fronte a un’epidemia di cui non si conoscono né le cause né una cura, una reazione automatica è quella della ricerca dei colpevoli, che avvelenano i pozzi per diffondere la peste. I capri espiatori ideali di quell’anno sono gli Ebrei per la convinzione che siano meno colpiti dal morbo.
E’ da precisare che, se la peste di Giustiniano ha segnato la fine della tarda antichità e l’inizio del Medioevo, la peste nera segna invece il passaggio dal Medioevo al Rinascimento.
LA PESTE RACCONTATA DA MANZONI
Dopo la morte nera, la peste non abbandona l’Europa, anzi torna periodicamente ad esplodere provocando milioni di morti. Basti pensare alla terribile pestilenza, che colpisce il milanese nel 1580, al tempo di San Carlo e alla più famosa del 1630, raccontata da Manzoni nei Promessi sposi.
La peste si propaga facilmente grazie allo stato di estrema povertà e privazione in cui la popolazione si trova dopo due anni di terribile carestia, e in seguito a movimenti di truppe e saccheggi avvenuti nell’ambito della guerra per la successione di Mantova e Casale e Monferrato. Manzoni si sofferma a descrivere con precisione di particolari il manifestarsi, il crescere, il diffondersi del terribile morbo, ma è più intento a presentare le reazioni psicologiche delle autorità e della massa di fronte alla notizia della peste. Lo scrittore infatti mette in luce il tardivo intervento delle autorità politiche e sanitarie, la credulità del popolo e l’ingannevole preoccupazione di nascondere la realtà della pestilenza. Come se, negando un male, lo si eliminasse, ecco che all’inizio si nega l’esistenza della peste, poi si ricorre ad attenuate forme di ammissione, finalmente, di fronte al precipitare delle cose, la dolorosa, ma tardiva presa di coscienza. Manzoni scrive infatti: “In principio, dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste; vale a dire, peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto; ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro”.
Anche nella Milano di quel tempo si va a cercare il paziente uno, che pare identificarsi in un soldato italiano al servizio dell’esercito spagnolo. Si suppone che si sia fermato in casa di parenti, prima di finire in ospedale con un bubbone sotto l’ascella e di morire nel giro di 4 giorni. Segue il sequestro della casa e l’isolamento dei parenti, il rogo dei vestiti, ma è tutto inutile, visto che un “semino” del morbo “non tardò di germogliare” per il restante dell’anno 1629 e per l’intero anno seguente.
Anche questa volta, di fronte alla violenza del contagio, si fa sempre più forte la necessità di creare dei colpevoli, perché né le autorità né i singoli vogliono ammettere che la colpa è di tutti, che hanno preferito chiudere gli occhi davanti al pericolo. Ecco perciò gli untori: credenza questa che non fu diffusa solo tra il popolo, ma anche accettata tra uomini colti e responsabili. Ma la credenza degli untori liberava apparentemente gli uni e gli altri dalla responsabilità di non aver emanato provvedimenti adatti ed opportuni o di non averli osservati quando erano stati emanati.
Oltre ai presunti untori si distinguono i monatti, che erano al servizio del Tribunale di Sanità e venivano reclutati fra uomini che non avevano molto da temere dal contagio, o perché già colpiti dal morbo e perciò immuni, o più spesso tra i criminali di pochi scrupoli, attratti dalla prospettiva di arricchirsi depredando i morti e i malati. Essi avevano il compito di raccogliere i cadaveri dalle strade o dalle case e portarli alle fosse comuni, oppure di trasportare i colpiti dalla peste al lazzaretto e di bruciarne i panni e i cenci infetti.
La peste nel milanese viene dichiarata debellata nei primi mesi del 1631. La sola Milano di 250.00 abitanti, ne perde 180.000, ossia il 74%. In mancanza di dati dettagliati, si stima che in Italia settentrionale tra il 1630 e il 1631 morirono 1.100.000 persone su una popolazione complessiva di circa 4 milioni.
Alla peste descritta da Manzoni succede quella di Londra del 1665. L’ultima epidemia catastrofica è la peste di Marsiglia del 1720, che provoca 80.000 morti nella sola Francia del sud.
Non sappiamo perché da questa data la peste lascia finalmente l’Europa fino ai nostri giorni. Ma essa nel resto del mondo è tutt’altro che scomparsa. Ogni anno infatti ci sono 1000-2000 nuovi casi tra India, Cina, Madagascar, Sud America ma anche negli Stati Uniti.
ALEXANDRE YERSIN E PAUL LOUIS SIMOND
Si è visto che Procopio attribuiva la causa della pestilenza, di cui era testimone oculare, alla imperscrutabile volontà divina, mentre noi oggi la spiegazione delle cause e dell’evoluzione della peste la conosciamo con precisione.
1894: un giovane medico svizzero, Alexandre Yersin, dopo aver lavorato per l’Istituto Pasteur di Parigi, si trasferisce ad Hong Kong. In primo luogo, identifica il microrganismo responsabile della malattia, il coccobacillo, oggi chiamato, in onore dello scopritore, Yersinia pestis; poi, in base a testimonianze di contadini, secondo cui in occasione delle epidemie di peste era solito trovare anche molti cadaveri di ratti, scopre nel loro sangue lo stesso batterio.
Tre anni dopo, un altro medico, francese, Paul Louis Simond, è in India allo scopo di trovare una cura per la peste e nel 1898, a Karachi, in Pakistan, si accorge che sulla pelle degli ammalati sono spesso presenti piccole vesciche piene di batteri identificati da Yersin. Simond scopre che il contagio avviene attraverso la puntura di un insetto, e precisamente della pulce del ratto.
La Yersinia pestis è originaria degli altipiani dell’Asia centrale e può infettare qualsiasi animale ma predilige i roditori, in particolare le marmotte asiatiche, che, avendo sviluppato una parziale resistenza alla malattia, sono divenute il serbatoio in cui il batterio trascorre la sua fase di mantenimento. Attraverso le pulci, però, il batterio può contagiare altri animali che hanno più contatto con l’uomo, in particolare il ratto nero, che viene ucciso in breve tempo. Dopo tre, cinque, giorni, compaiono i sintomi, il più tipico è l’ingrossamento del linfonodo, che diventa un bubbone duro e dolente. Gli altri sintomi sono febbre, debolezza, mal di testa, delirio. Nell’80% dei casi il malato muore nel giro di tre – cinque giorni; altrimenti il bubbone suppura, lasciando una cicatrice, e la vittima può salvarsi.
I VIRUS
Purtroppo non esistono solo batteri, già microrganismi invisibili ad occhio nudo, ma anche i virus, microrganismi ancora più piccoli. Si è visto l’origine del batterio della peste, chiamato Yersinia pestis.
Da dove vengono i virus che ci affliggono e causano anch’essi epidemie?
Come i batteri, anche i virus vengono dagli animali. Questo accade attraverso un fenomeno che è chiamato “spillover”, che può essere tradotto con la parola italiana “tracimazione”, qualcosa che trabocca e traboccando va a finire da un’altra parte. E’ esattamente quello che succede con i virus: traboccano dagli animali e finiscono nell’uomo.
Ed è quello che è successo e succede con l’influenza stagionale, malattia infettiva respiratoria causata dal virus dell’influenza, contro il quale, nonostante muti ogni anno, da tempo si dispongono dei vaccini sicuri ed efficaci, mettendoci nella condizione di poter convivere con esso. Il picco influenzale avviene in inverno, e poiché nell’emisfero boreale e in quello australe l’inverno giunge in periodi dell’anno diversi, esistono due diverse stagioni influenzali ogni anno. Nelle due normali stagioni influenzali in un anno (una per emisfero) ci sono tra i tre e i cinque milioni di casi di malesseri gravi e fino a 500 000 decessi a livello mondiale.
L’INFLUENZA SPAGNOLA
Ma una vera e propria pandemia virale la si ha nella primavera 1918 con l’influenza spagnola, così chiamata perché al momento della sua prima apparizione era ancora in corso la Prima guerra mondiale, e nelle nazioni in guerra, la stampa, sottoposta alla censura governativa, non poteva pubblicare notizie che potessero demoralizzare i soldati e la popolazione, come per esempio il dilagare di un’epidemia.
La Spagna, però, era uno Stato neutrale, e perciò i giornali non avevano nascosto la presenza di una strana influenza, tanto meno quando ad ammalarsi era stato lo stesso re Alfonso XIII (sopravvissuto), così si è finito per associare la malattia all’unica nazione che ne parlava. La malattia è chiamata dunque “Influenza spagnola”, ma ha qualcosa di diverso dall’influenza stagionale. Prima di tutto compare in primavera, quando di solito l’influenza stagionale ha finito il suo corso. In secondo luogo, inizia come “onda premonitrice” (Herald weve). Infatti, si è in un primo momento manifestata come un’ ondata violenta, aggressiva, fuori stagione, iniziando ai primi di marzo in un campo di addestramento dell’esercito americano in Kansas, per dilagare in poche settimane nei vari campi militari sparsi nel Midwest, nei centri abitati e nei villaggi. Dai soldati americani che arrivano in Francia il morbo si diffonde a tutti gli eserciti schierati non solo sul fronte occidentale, ma anche sul Piave, dove si fronteggiano italiani e austroungarici. Raggiunge la Russia nel pieno della rivoluzione bolscevica; a maggio sbarca in Nord Africa e in un mese percorre il continente; punta verso l’India e infetta la Cina e il Giappone; a luglio è in Australia. E pare scomparire.
Ma all’improvviso, in agosto, riesplode in tre diversi focolai sulle coste dell’Atlantico.
Il 10 agosto, a Brest, in Bretagna, lo stesso giorno in cui l’Inghilterra dichiara conclusa l’epidemia di influenza, si ammalano più marinai francesi di quanti ne possa ricoverare l’ospedale della Marina. Nel giro di qualche settimana, tutta la zona intorno a Brest è devastata dall’influenza, che colpisce americani, ivi giunti, francesi, militari e civili, e quando i militari vengono inviati altrove, portano con sé la malattia. Il 15 agosto a Freetown, capitale della Sierra Leone, una nave inglese entra in porto per rifornirsi di carbone, ma 200 membri dell’equipaggio sono malati, e a loro volta contagiano non solo gli equipaggi delle navi in arrivo, ma i locali, e di fatto, l’intera Africa occidentale. Sulla sponda opposta dell’oceano, a Boston, porto adibito a enorme centro di smistamento della Marina militare, si sviluppa alla fine di agosto un nuovo focolaio, che invano i medici del Chelsea Naval Hospital tentano di isolare, rintracciando tutti quelli che hanno avuto contatti con i malati.
L’infezione ha ripreso la sua corsa, così che nell’autunno del 1918, la spagnola infuria ovunque, con un tasso di mortalità che cresce a dismisura. Mai, nell’intero corso della storia, l’umanità ha visto morire tante persone in soli tre mesi. Infatti la spagnola ha ucciso più di 50 milioni di persone. Questo evento gravissimo si verifica perché siamo davanti a un virus sostanzialmente nuovo e pochissimi hanno anticorpi protettivi.
DUE VIRUS DIVERSI
L’emergenza di un ceppo influenzale pandemico è fortunatamente cosa rara. E’ successo nel 1957 e nel 1968, quando si sono originati due virus diversi e nuovi causando l’Asiatica e la Hong Kong e ben oltre il milione di morti.
Nel 2003 nel Sudest asiatico si diffonde l’influenza aviaria per un virus del pollame che ha acquisito la capacità di contagiare anche l’uomo. Nel 2009 un nuovo ceppo, derivato da maiali del Messico, dà origine alla peste suina, che però non contagia l’uomo.
EBOLA
Più grave invece è quanto succede tra il 1976 e il 1916 nei paesi equatoriali dell’Africa, in cui si sono susseguite più di 25 epidemie di Ebola.
Dopo un periodo di incubazione di una ventina di giorni compare all’improvviso qualcosa che assomiglia a un’influenza: febbre alta, malessere, stanchezza, dolori ossei e muscolari. Ma mentre l’influenza nel giro di due o tre giorni inizia a dare segni di un miglioramento, l’Ebola peggiora. A causa della perdita di liquidi, il paziente può cadere in una situazione pericolosissima nella quale gli organi del corpo ricevono sempre meno sangue e di conseguenza meno ossigeno, aumentando in maniera esponenziale la possibilità di morte. La mortalità è altissima: oscilla tra il 25% e l’80%.
Il virus Ebola colpisce una zona impreparata al suo arrivo. I Paesi dell’Africa occidentale infatti sono tra i più poveri del mondo ed essendo appena usciti da anni di conflitti e di guerre civili, hanno una situazione sanitaria e politica molto fragile. Per questo non è possibile fermare l’epidemia, che invece si diffonde sempre di più. Infatti tra le epidemie di Ebola è da notare quella scoppiata alla fine del 2013, quando il virus si sposta e arriva a Meliandou, un villaggio sperso nelle foreste del Sudest della Guinea. Pure rilevante è l’epidemia senza precedenti che nel 2014 travolge la Sierra Leone e che arriva a colpire quasi 30.000 persone e a ucciderne più di 11.000. Tra il 2014 e il 2016, nella Repubblica Democratica del Congo si accendono diversi focolai di Ebola, che causa una mortalità molto elevata, tra il 25 e il 40% .
Lo scopritore del virus Ebola è Peter Piot, giovane ricercatore appena 27enne presso l’Istituto di Medicina Tropicale di Anversa, Belgio. Nel 1976 si reca in Zaire alla volta di Yambuku. Raccoglie campioni di sangue delle persone ammalate e li porta ad analizzare nel laboratorio della vicina città di Kinshasa. Qui viene confermato che il responsabile dell’infezione è il nuovo virus che era stato isolato ad Atlanta precedentemente. Si decide di chiamarlo Ebola, come il fiume le cui acque scorrono vicino al piccolo villaggio di Yambuku.
AIDS
La maledizione che ha colpito la Guinea, la Liberia, la Sierra Leone e la Repubblica Democratica del Congo è un esempio che serve per riflettere sulla fortuna di essere in un paese dove il servizio sanitario è efficiente e dove un disastro del genere non si sarebbe mai potuto verificare. Ma i virus non sono facili da bloccare e capitano occasioni in cui anche la nostra società occidentale si mostra debole e vulnerabile come è accaduto nel caso dell’AIDS agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso.
Nella zona sotto il deserto del Sahara una scimmia morde qualcuno, forse un uomo si ferisce mentre sta preparando la carne per cucinarla. Non sappiamo come sia successo e non lo sapremo mai. Ma avviene uno spillover, un virus della scimmia passa all’uomo e diventa un virus umano.
Il virus si trasmette con il sangue e i rapporti sessuali. Tuttavia il contatto con il sangue è raro e i rapporti sessuali non sono una via efficiente di diffusione. Con una eccezione però: il rapporto sessuale tra due uomini trasmette con maggior efficacia il virus. E in effetti, il virus, con tutta probabilità passando per Haiti, arriva nella comunità degli omosessuali americani a Los Angeles.
Si è nell’autunno del 1980 e un medico che lavora all’Università della California a Los Angeles, si imbatte in un caso che lo lascia perplesso. Un omosessuale trentenne, fino a quel momento perfettamente sano, si presenta al pronto soccorso con problemi alla lingua e alla bocca che sono peggiorati negli ultimi giorni, tanto da impedirgli di deglutire per il dolore.
La cosa che più allarma è il fatto che nel sangue del paziente le cellule addette a combattere le infezioni, i globuli bianchi, sono pochissime e il medico non riesce a capirne il motivo. Il paziente, inoltre, ha una brutta tosse, la febbre alta, lamentando una fortissima stanchezza e un forte senso di mancanza d’aria. Si pensa a una classica polmonite, ma non lo è. Gli esami rivelano che si tratta di una malattia dovuta a un parassita che si presenta esclusivamente nei soggetti immunodepressi. Allo stesso tempo qualcosa di simile sta succedendo dall’altra parte degli Stati Uniti, a New York. Ci sono casi molto strani di ragazzi omosessuali, che si ammalano, riempiendosi di lesioni cutanee molte estese. L’allarme si scatena: come mai quei pazienti omosessuali hanno il sistema immunitario completamente distrutto? Questi casi sono seguiti da molti altri, non solo negli Stati Uniti, e nel giro di pochi mesi è evidente a tutti che è scoppiata l’epidemia di una malattia gravissima. Si diffonde così il terrore della malattia e il nome AIDS risuona in tutto il mondo.
Nel frattempo, in questi terribili anni Ottanta, iniziati con una nuova malattia mortale, molti ricercatori cominciano a convincersi che l’AIDS possa essere causato da un virus. E’ il 1983: il virologo Luc Montagnier, direttore del laboratorio di oncologia virale presso l’Istituto Pasteur di Parigi, inizia a riflettere sul problema. In America a occuparsene è il celebre scienziato di origine italiana Robert Gallo. Gallo e Montagnier iniziano una vera e propria battaglia, in cui il primo sostiene di aver isolato per primo il virus responsabile dell’AIDS e che a suo giudizio è diverso da quello francese. Ma la competizione si chiude con risultati che non lasciano dubbi: il virus americano è lo stesso isolato dai francesi.
Adesso si conosce l’agente patogeno che causa la malattia e ci si può finalmente concentrare sullo studio di tutti i meccanismi con cui questo virus attacca i globuli bianchi delle persone infette. Si può diagnosticare l’infezione e si possono incominciare a cercare vaccini e farmaci, gli stessi che si utilizzano oggi contro il Covid-19.
SARS
Zhou Zuofeng, corpulento commerciante di pesce al mercato di Gaungzhou, non può immaginare che sarebbe passato alla storia come il paziente 1 della SARS. E’ sopravvissuto all’infezione del terribile virus causa della SARS, la Severe Acute Respiratory Syndrome, una grave forma di polmonite che fra il 2002 e il 2004 infetta più di 8000 persone in 17 Paesi del mondo, uccidendone 774. Il virus trova un complice formidabile nelle autorità cinesi per la segretezza con cui gestiscono l’intera vicenda. Fatto sta che l’OMS è tenuta accuratamente all’oscuro di tutto, fino a quando il virus non valica platealmente i confini della Cina.
L’identificazione del patogeno colpevole, lo si è visto, è fondamentale per mettere in atto le misure di contenimento di un’epidemia. Si incomincia perciò a cercare fra gli agenti patogeni noti di polmonite atipica, ossia quella forma di polmonite che non è causata dal batterio pneumococco, ma da diversi virus, primi fra tutti i virus influenzali. Le ricerche iniziali si concentrano proprio in quella direzione. Fortunatamente il virologo Malik Peiris, nato nello Sri Lanka nel 1949 e formatosi a Oxford, si mostra da subito un ricercatore di altissimo livello. E’ convinto che per scoprire il colpevole occorra isolarlo e coltivarlo in laboratorio. Servono centinaia di tentativi su tutti i sistemi di coltura disponibili. Il 15 marzo del 2003 un suo collaboratore vede per la prima volta delle macchie in un tubo di coltura in cui era stato seminato un estratto di tessuto polmonare prelevato da un paziente morto di SARS. Le macchie sono il segno che un virus sta compiendo il suo lavoro ai danni delle cellule, di cui è parassita, per sopravvivere. Si sta cioè moltiplicando attivamente distruggendo il tessuto infettato.
Ma che virus è?
Il mistero si svela appena Peiris riesce a mettere a punto una fotografia al microscopio elettronico, in cui sono evidenti le particelle virali, che escono da cellule di polmone appena infettate. Essi sono perfettamente rotonde e presentano intorno alla propria membrana piccole protuberanze, che la incorniciano come le punte di una corona.
E’ un coronavirus!
L’epidemia SARS si spegnerà lentamente, dando segno di sé per l’ultima volta a Taiwan. Il 5 luglio 2003 l’OMS dichiara che l’epidemia è ufficialmente interrotta.
Interrotta ma non debellata. Infatti, ecco la pandemia che si chiama Covid-19, causata dal nuovo coronavirus SARS-Cov-2, e la scienza si mette al lavoro fin da subito alla ricerca di cure e di vaccini, di cui tre sono stati dichiarati sicuri ed efficaci, rispettivamente dalle Case farmaceutiche statunitensi Pfitzer e Moderna e da quella inglese AstraZeneca.
In Italia, in un primo momento, è stato scelto l’isolamento come unica procedura che poteva rallentare, o addirittura fermare la diffusione del virus, dividendo il Paese in zone diversamente colorate a secondo del grado di diffusione del contagio. Poi, dalla primavera del 2021, si è condotta una massiccia campagna di vaccinazione che sembra scongiurare l’ospedalizzazione e il rischio della necessità di terapia intensiva.