E-commerce B2C nell’abbigliamento. Il problema dei resi

E-commerce B2C nell’abbigliamento. Il problema dei resi

E-commerce B2C nell’abbigliamento. Il problema dei resi

A cura di Luigi Torriani

Oggi sono circa 3 miliardi le persone che nel mondo acquistano abbigliamento e accessori moda anche online, per un giro d’affari di circa 500 miliardi di euro (dati Netcomm). Le aziende e i brand del mondo fashion puntano dunque, sempre di più, sull’e-commerce B2C, che ha offerto ai clienti evidenti vantaggi in termini di sicurezza nel periodo dell’emergenza Covid, e che rispetto ai punti vendita fisici consente una maggiore ampiezza di gamma e un’offerta molto più vasta (l’esperienza di una sorta di “scaffale infinito”), oltre a permettere di risparmiare sui costi immobiliari legati all’utilizzo di negozi.

Ma c’è un problema, che si può sintetizzare in questi termini: una delle principali chiavi per il successo dei canali di e-commerce nell’abbigliamento è il reso gratuito, ma questo punto di forza si sta trasformando in un boomerang, portando a una crescita incontrollata delle percentuali di resa, con tutta una serie di conseguenze difficilmente gestibili. Chi compra online vestiti e accessori moda vuole avere la possibilità di restituirli gratuitamente e comodamente, e questo diritto di resa non è un plus ma un fattore determinante per il cliente, al punto che secondo i dati pubblicati da The Journal of Marketing chi vende abbigliamento online offrendo la possibilità del reso gratuito vende il 457% in più rispetto a chi non offre questa opzione.

Tutto questo per certi versi non stupisce, perché il commercio online – non potendo offrire al cliente il contatto fisico con il prodotto – deve in qualche modo compensare questa mancanza facendo leva sulla gratuità e facilità del reso, che però finisce – sempre più spesso – con il creare nel cliente una sorta di assuefazione che genera un’ipertrofia delle rese.  Entro che limiti e a quali costi per il retailer? Non esistono dati internazionali univoci da questo punto di vista, ma le molte stime disponibili online parlano generalmente di una percentuale di reso – nell’e-commerce fashion B2C – che oscilla tra il 20% e il 35%. Questo significa che oltre un quarto dei vestiti che vengono acquistati online sono poi restituiti dal cliente.

Le conseguenze di questo circolo vizioso sono numerose, ma le principali sono sintetizzabili in questi termini:

  1. COSTI ECONOMICI

Il costo delle spedizioni del reso è carico del venditore, così come il costo per la gestione fisica dell’oggetto restituito: lavorazione del pacco, controllo dello stato dell’oggetto (in che condizioni è, se è rivendibile o meno), eventuale eliminazione dell’oggetto oppure eventuale pulizia dello stesso con ripristino dell’imballo e ricollocazione nei magazzini.

Se il venditore finale è uno dei grandi big della Gdo online, questi costi verranno parzialmente scaricati sul fornitore, più a monte lungo la filiera tessile, limitandosi comunque a un semplice spostamento del problema su altri.

  1. COSTI AMBIENTALI

I trasporti di merci costituiscono oggi la prima causa di emissione di gas serra, e ogni reso – raddoppiando il trasporto – raddoppia l’inquinamento, senza contare la necessità o di eliminare l’oggetto restituito, oppure di creare un nuovo imballaggio, in ogni caso aumentando l’impatto ecologico in termini di quantità di rifiuti generati.

Ma perché chi acquista vestiti online così spesso poi li restituisce? In alcuni casi si tratta di merce rovinata o difettosa, ma spesso il problema è legato alla difficoltà di valutare un vestito (o un paio di scarpe) – senza vederlo e senza provarlo fisicamente, anche perché non esistono delle misure standard universali, e quella che per un certo brand può essere – per esempio – una taglia M, per un altro è una taglia S. Il cliente riceve il vestito, lo prova, si accorge che la misura non è corretta, oppure che il vestito è diverso da come se lo immaginava, e lo restituisce.

Poi c’è tutto un filone di “reso fraudolento”, che a quanto pare è in forte crescita, con fenomeni come il wardrobing, che consiste nell’acquistare un abito o un accessorio, indossarlo lasciando l’etichetta (per una serata importante o anche solo per mettere una foto su Instagram) e poi restituirlo per ottenere il rimborso.

Per contrastare il fenomeno del wardrobing si stanno diffondendo alcune soluzioni (una è R-Turn Tag di Checkpoint Systems), che consistono nell’applicare un tag in punti dell’abito (o delle scarpe) che dissuadono il cliente dall’utilizzarlo (un’etichetta molto grande e molto visibile, che se viene rimossa rende impossibile poi il reso gratuito, e che è poco compatibile con l’indossare l’abito in pubblico senza fare brutta figura).

Analogamente molti sono al lavoro per ridurre il rischio di resi legati a taglie e misure errate, e alcune software house stanno proponendo delle app che consentono al cliente – dal proprio smartphone – di valutare in maniera più precisa la congruità tra le proprie misure e quelle dell’abito che si intende acquistare.

Da questo punto di vista la ricerca sul fronte tecnologico è soltanto agli inizi, e le novità – nei prossimi anni – potrebbero essere molte. Ma difficilmente potrà esserci qualcosa di pienamente risolutivo, e il problema dell’eccesso di resi nell’e-commerce nel settore abbigliamento potrà essere forse parzialmente arginato ma mai superato. Le aziende del settore, dunque, si stanno orientando per il futuro verso un’ottica di omnicanalità, nella quale il canale online si affianca e si intreccia ai negozi fisici, troppo frettolosamente da alcuni dati per morti, e invece probabilmente destinati ad acquisire un rinnovato peso.



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