La Chiesa cattolica e i social network
Intervista ad Alberto Galimberti
ALBERTO GALIMBERTI – Giornalista, collabora con la cattedra di Politica e comunicazione dell’Università Cattolica di Milano. Scrive sul mensile dell’Azione cattolica Segno nel Mondo e sulle pagine culturali del quotidiano La Provincia di Como, Lecco e Sondrio. Ha pubblicato i libri “Il metodo Renzi. Comunicazione, immagine e leadership” (2015, Armando Editore) e “È una Chiesa per giovani? Proviamo ad ascoltarli” (2018, Ancora Editrice).
Già Benedetto XVI si era iscritto a Twitter nel 2012, e Papa Francesco è presente su Twitter con l’account @Pontifex (in nove lingue), è su Instagram con il profilo @Franciscus, e dopo un’iniziale perplessità (si temeva soprattutto il problema di come controllare i commenti eccessivamente volgari e offensivi) è approdato anche su facebook con il profilo ufficiale “Papa Francesco I – Jorge Mario Bergoglio”. La presenza del pontefice sui social network quali cambiamenti determina nella comunicazione ufficiale della Chiesa e nell’immagine del suo massimo rappresentante? E quali possono essere le difficoltà nel gestire i profili social del Papa?
Nella comunicazione della Chiesa non conta tanto l’empatia suscitata da questo o quel papa, più o meno consonante alle sintassi e alle cifre stilistiche mediali, più o meno a proprio agio con l’effetto spettacolare scatenato da tv e social, pur importante – sia chiaro – nella società della comunicazione di massa. Quello che conta davvero è l’autenticità (e la potenza) dischiusa dall’annuncio cristiano. L’aderenza delle parole proferite con quelle contenute nel Vangelo. Da questo punto di vista non vedo nessuna particolare difficoltà nella gestione dei profili social del Papa, che non modificato il contenuto dei messaggi papali, sono curati da professionisti che conoscono bene il contesto dei social media, e vanno intesi come una semplice evoluzione comunicativa obbligata, peraltro in sostanziale continuità con le scelte già fatte da Giovanni Paolo II negli anni immediatamente precedenti l’esplosione dei social network.
Wojtyla è stato il pontefice mediatico per antonomasia, il papa che accendeva l’entusiasmo delle moltitudini, fluidificando la comunicazione della Chiesa al ritmo imposto dalla contemporaneità, e puntellandone la deteriorata immagine pubblica, allorché, sullo scadere di fine secolo scorso, la Chiesa cattolica è finita permanentemente sotto i riflettori, come mai era accaduto nella sua storia. Una Chiesa raccontata sì tramite l’operato di Giovanni Paolo II, ma anche accusata di essere tetragona al cambiamento, agendo nel solco di una tradizione ritenuta inservibile agli esordi del Terzo millennio.
Ratzinger è stato il pontefice della parola, della parola raffinata, aulica, sacra. Ma anche della parola sincopata, asciugata in centoquaranta caratteri virali, dello sbarco su Twitter con l’account @pontifex, sanando ritardi e adeguando il sistema comunicativo della Santa Sede alle innovazioni tecnologiche impresse dal web, che al tempo del suo predecessore polacco erano ancora di là da venire.
Infine, Bergoglio è il pontefice delle immagini e delle metafore fruibili da chiunque. Immagini e metafore, ma anche gesti che partoriscono un linguaggio visuale, la cui forza impattante è rivendicata ed esortata dallo stesso pontefice gesuita. Evocando il modello di Gesù che i Vangeli ritraggono come un abile oratore: il suo messaggio arrivava a tutti e molti lo seguivano.
Sono molti oggi i sacerdoti attivi su facebook, e l’Università Cattolica ha creato nel 2018 un vero e proprio corso sui social network dedicato ai parroci e alle parrocchie. Ci saranno a tuo avviso nella Chiesa delle direttive ufficiali per regolamentare il comportamento dei preti sui social media? Su questo fronte quali possono essere secondo te le opportunità e quali i rischi?
Il messaggio fa premio sui mezzi di comunicazione, dei quali, comunque, occorre conoscere grammatica e ingranaggi. Se i profili social del Papa sono gestiti da professionisti, spesso non è così nel caso dei parroci e delle parrocchie, ed è importante non fare errori. Può essere una buona idea organizzare corsi sui social network per i parroci, e non possiamo escludere l’arrivo di direttive ufficiali della Chiesa relative al comportamento dei preti sui social network. Ma innanzitutto io credo che una genuina ispirazione al Vangelo sia sempre – e anche in questo caso – il modo migliore per non sbagliare. Gesù comunicava soprattutto attraverso parabole e gesti, azioni portatrici di significato, cioè accondiscendendo a due precise vesti retoriche: l’esempio e la semplicità. Questa lezione è valida sempre ed è valida per ciascuno, e comunque per qualsiasi persona chiamata ad annunciare il Vangelo, la buona notizia: prete, catechista, educatore, genitore, insegnante, redattore del giornalino parrocchiale e/o curatore della pagina social. Dobbiamo – tutti – cercare di colmare il divario acuitosi tra le giovani generazioni e la Chiesa, arrestando l’emorragia delle prime e infondendo rinnovato slancio alla seconda. Obtorto collo ne deriva la necessità di ripensare la comunicazione da parte della Chiesa, una Chiesa che a tratti – questa è la sensazione – appare dimentica della potenza del messaggio evangelico, persa in una soporifera e autistica autoreferenzialità. Il terreno della comunicazione è il principale fronte di rinnovamento perché il compito della Chiesa è annunciare la Buona Novella della salvezza, e poi fornire i mezzi perché questa salvezza sia realmente effettiva. Come appreso durante il mio viaggio, i giovani spesso sono disamorati alla vita ecclesiale, lontani, sintonizzati su altre frequenze, perché il campo che trasmette le parole «fede» e «Dio» spesso e volentieri è intermittente, disturbato e gracchia.
Cosa significa – in concreto – ripensare la comunicazione da parte della Chiesa? Occorre innanzitutto accantonare toni e sermoni moralisti, tacitare gli accenti calcati sulla dottrina e i divieti, dismettere comportamenti intransigenti per tornare ad abbracciare il cuore pulsante del Cristianesimo, il fondamento della predicazione di Gesù, l’annuncio della buona novella. Servono parole di misericordia più che di biasimo, sulla stregua del magistero bergogliano.
Nel tuo nuovo libro “È una Chiesa per giovani? Proviamo ad ascoltarli”, pubblicato da Ancora – una delle più importanti case editrice cattoliche, non esprimi giudizi e fai un lavoro giornalistico di grande interesse, intervistando sul tema del rapporto tra i ragazzi e la fede quattro esperti (Alessandro D’Avenia, Franco Garelli, Chiara Giaccardi e Alessandro Rosina) e altre persone con storie importanti alle spalle…
“Nichilisti, sprecati, allergici a Chiesa, religione e Dio”: pur andando per la maggiore, questa tesi sui giovani non mi ha mai convinto del tutto. Armato di penna e taccuino, spogliato di pregiudizi e disposto all’ascolto, li ho incontrati – i giovani, scrostando la patina di luoghi comuni che li ammanta. È stato un viaggio fecondo di storie sorprendenti. Ne cito alcune.
Gabriele, che invece di raccogliere il testimone dell’impresa di famiglia, sceglie la via del sacerdozio. Sara e Fabio, che lavorano con i rifugiati riconoscendo nell’educazione cattolica uno snodo cruciale della propria formazione, sebbene da tempo non frequentino più le liturgie, infastiditi dalle contraddizioni con il dettato evangelico. Ivan, bestemmiatore incallito, risucchiato da un’adolescenza furoreggiante, che si è convertito, sgranando un rosario e pronunciando a fior di labbra il nome di Maria, madre. Marco, giornalista dai pensieri raffinati, volontario in reparto di pediatria, che, dopo aver vinto un tumore al cervello, continua a ritenere il mondo senza senso: troppo crudele per concepire l’esistenza di un Dio amorevole.
Laura, nata da un rapporto extraconiugale, sopravvissuta a maldicenze, ostracismi, giudizi farisaici, nonché alla morte del padre, che trova nella fede un’ancora di salvezza, rinfodera la tentazione del rancore e crede alla bellezza della vita. Il tutto senza abdicare ai sogni di bambina: diventare magistrato, sposa e mamma.
Davide, che le peripezie della vita hanno spinto in Australia e non stima la Chiesa, sfregiata dall’operato dei preti pedofili, ma afferma di essere credente e di “raccogliersi in silenzio” quando deve chiedere aiuto.
Sono storie di giovani resilienti che non disertano il destino cui sono chiamati, anche quando la vita assesta loro colpi micidiali. In cammino sulle tracce della felicità e (di Dio), questi ragazzi provano a riacciuffare speranza e futuro. Mentre i contributi delle quattro voci autorevoli trovano un comune punto di caduta: ciascun giovane è un inedito, una promessa da compiere. Se viene aiutato (da famiglia, scuola e Chiesa)a scovare il proprio talento, oltre a realizzarsi nella vita, diventerà valore per l’altro, quindi per la società: un incubatore di bene comune.
Qual è la tua risposta personale alla domanda che dà il titolo al libro: è una Chiesa per giovani?
È una domanda che attraversa la storia dell’umanità: è stato difficile fornire una risposta esaustiva in 140 pagine, figuriamoci in un pugno di parole. Ma non voglio eludere l’interrogativo. La società di oggi è imbevuta di narcisismo e di un certo disincanto. I desideri sembrano disseccati. Eppure i giovani che ho incontrato mi hanno confidato il bisogno di coltivare una dimensione spirituale. Perciò mi sento di dire che la secolarizzazione, al contrario di quanto preconizzato, non ha estirpato del tutto il bisogno di trascendente che alberga nel cuore dei giovani. Alla Chiesa tocca la “missione” immane, difficilissima e affascinante insieme, di tenere accesa quella flebile fiammella di speranza. Di farsi, nuovamente, comunità educante, testimone del Vangelo, che è annuncio della buona novella. Certo,è un’istituzione plurisecolare radicata nella contemporaneità e deve confrontarsi con i mutamenti intervenuti nella società. In più sconta, all’esterno, un’immagine percepita come autoreferenziale, statica, gerarchica; mentre anche fra i giovani, chi crede oggi è in cammino, non accetta una fede a scatola chiusa, calata dell’alto. Per tacere poi, almeno in Europa, del declino degli “effettivi”, della rarefazione delle vocazioni e del crollo dei fedeli. Ciononostante, dal mio umile angolo di prospettiva, penso che se la Chiesa riallaccia il rapporto con i più giovani, linfa vitale e arteria pulsante, vestendo uno sguardo non di biasimo e intransigente ma aperto e intonato alla speranza, spalancato sulla vicenda di Gesù, può riscrivere il proprio futuro (e quello del mondo) allontanando da sé le cassandre sinistre che ne vaticinano la sparizione nello spazio di una generazione.