Leadership aziendale. Cosa cambia con il Covid - Datasys Magazine

Leadership aziendale. Cosa cambia con il Covid

Intervista a Elena Tosca – Docente LIUC

A cura di Luigi Torriani

ELENA TOSCA – Docente presso la LIUC – Università Cattaneo di Castellanza, nell’ambito del Corso di Laurea Magistrale in Economia Aziendale e Management, Elena Tosca è anche Direttore del Centro sul Cambiamento, la Leadership e il People Management e Direttore del MEMA (Master in Meccatronica & Management) della Liuc Business School, Partner Fondatore di AKRON srl (società di consulenza strategica e formazione manageriale) e membro del Comitato Direttivo dell’AIADS (Associazione Italiana di Analisi Dinamica dei Sistemi). È co-autrice di diversi libri, tra i quali segnaliamo: “Scuola, università, impresa. Ripensare le opportunità educative” (Guerini Next), “Soft Skills per il Management” (Guerini Next), “Pensiero sistemico & management innovation” (Franco Angeli), “Il sestante delle organizzazioni vincenti” (Franco Angeli), “Alla base dei risultati” (Franco Angeli), “Come costruire il futuro dell’impresa” (Franco Angeli).

Nei tuoi libri si parla di “Management 3.0”, per indicare il modello che andrebbe seguito da chi ha dei ruoli di leadership in azienda, un modello nel quale acquisiscono una centralità i temi della relazione e del coinvolgimento delle persone, in un’ottica che supera gli aspetti esasperati di competizione, di verticalità e di individualismo legati ai modelli tradizionali di management. Tuttavia la difficile situazione attuale legata all’emergenza Covid da una parte ha posto e pone di continuo ai manager la necessità di prendere delle decisioni che richiedono grande rapidità, e dall’altra sta in qualche modo complicando la dimensione relazionale e del confronto tra i colleghi, che si alternano tra lavoro in ufficio e smart working e che – nel caso di aziende con più sedi in diverse nazioni – addirittura non si vedono “dal vivo” da mesi. Come si può declinare, in questa situazione così difficile, il modello di Management 3.0? Ovvero: quali difficoltà – in generale – sta determinando il Covid dal punto di vista della leadership aziendale e della “gestione” delle persone e dei team?

Quanto si è verificato in questi ultimi mesi è qualcosa di totalmente inatteso ed impensabile (anche se qualcuno aveva prefigurato una pandemia come la peggior guerra che ci sarebbe potuta capitare, con impatti economici e sociali senza precedenti, per esempio Bill Gates nel marzo del 2015). Il matematico libanese Nassim Nicholas Taleb ha coniato, nel 2007, il termine “Cigno Nero”, proprio per descrivere questa tipologia di eventi rari, imprevedibili, difficili da concepire ma con effetti importanti sulle nostre vite e sulla società (anche se lo stesso Taleb si è indignato pubblicamente per l’associazione di questa emergenza sanitaria al “suo” Cigno Nero). Bisogna sottolineare che il concetto di Taleb non ha, di per sé, una connotazione negativa o positiva. Ciò che è determinante è la difficoltà di concepire l’evento e la forza delle sue conseguenze. L’avvento del Covid-19 ha sicuramente, tra le altre cose, avuto conseguenze importanti e senza precedenti sulle dinamiche organizzative. Le regole del gioco sono cambiate, sono cambiate le modalità relazionali e lavorative. La maggior parte delle aziende si è dovuta letteralmente reinventare, solo alcune erano già pronte per affrontare un nuovo modo di agire. Il mondo del business e delle organizzazioni non è tuttavia nuovo nel doversi confrontare con un dinamismo esterno particolarmente attivo e vivace, un dinamismo che ha già, nel corso degli anni, portato a rivedere il Modello di Management, vale a dire l’insieme delle scelte riguardanti il come prendere le decisioni, quali sistemi di controllo e coordinamento utilizzare, come definire gli obiettivi, su quale fonte di motivazione far leva, come distribuire le informazioni, quale tipo di cultura infondere e quali sistemi di crescita, sviluppo e apprendimento utilizzare all’interno dell’organizzazione (J. Birkinshaw 2016, V. D’Amato 2018).  Molti manager e molte aziende si sono posti la domanda se il loro Modello di Management fosse ancora adeguato ai nuovi contesti (competitivi, sociali, …), e hanno avviato dei percorsi di trasformazione dei modelli e, quindi, delle politiche adottate.

Ciò che è successo ha solo enfatizzato alcune tendenze che erano già in atto, tendenze legate, in particolare, a:

  • L’adozione di meccanismi decisionali meno accentrati e in grado di coinvolgere sempre di più i collaboratori
  • La maggiore autonomia e capacità di gestione lasciata ad individui e team
  • La definizione di obiettivi con processi interattivi
  • L’enfasi sulla motivazione intrinseca legata al coinvolgimento e alla qualità del lavoro
  • La maggiore trasparenza e capillarità nella diffusione delle informazioni
  • Lo sviluppo di una cultura meritocratica che faccia leva sulla collaborazione
  • La creazione di percorsi di crescita e di sviluppo che portino ad un allargamento e ampliamento delle competenze, e che favoriscano l’apprendimento organizzativo

Come sostiene Geoffrey Garrett, dean della University of Southern California, in un suo recente articolo (2020): oggi abbiamo bisogno di manager che siano in grado di ammettere i loro limiti, che siano aperti alle nuove sfide e che sappiano ridurre la distanza tra loro e i collaboratori. In pratica, abbiamo bisogno di manager “veri”, umili, aperti e fortemente impegnati.

Come riuscire ad applicare questi concetti in un nuovo mondo fatto di distanziamenti sociali, smart working e virtualità?

Innanzitutto, ci dobbiamo convincere di un elemento sostanziale: questa nuova condizione va considerata come una normalità e non come un’eccezione. Se iniziamo ad entrare in questa visione delle cose diventa più facile pensare in maniera diversa. Sostanzialmente le cose non cambiano (anche se alcuni aspetti, vedremo più avanti, richiedono delle attenzioni particolari). Ovvero: ciò che rientra nei compiti di un manager, ed i principi di fondo del suo operato, non variano se invece che avere nell’ufficio di fianco i collaboratori, oggi li ha distanziati geograficamente. Ci sono aziende che da anni lavorano con team internazionali, con un capo a Shanghai, un collaboratore a Londra, l’altro a Cincinnati ed il terzo a Parigi. Hanno sempre lavorato a distanza, si sono visti praticamente solo tramite una videocamera, eppure per loro tutto questo è “normale”. Un pensiero a parte meriterebbe lo smart working, termine impropriamente utilizzato per indicare, molto spesso, il semplice “lavoro a casa”. Una volta si chiamava “telelavoro”, ma oggi fa vecchio utilizzare questa espressione e quindi ci si riempie la bocca di un termine che non ha niente a che vedere con ciò che lo smart working in realtà comporta: flessibilità di orario, flessibilità sulla scelta del posto di lavoro, gestione per obiettivi … Lo smart working “vero” è l’unica reale rivoluzione manageriale e gestionale. La maggior parte delle persone che si trovano, oggi, a non andare in ufficio, o ad andarci a rotazione, quando non sono in azienda vengono gestite esattamente come se lo fossero. Sotto certi aspetti questo comporta una involuzione del modello di management. Se prima il capo era arrivato a lasciare maggior libertà d’azione, riducendo la pressione del controllo (ma tanto aveva le persone “sott’occhio”, e poteva facilmente avere dei riscontri rispetto allo svolgimento di attività o compiti), oggi tende ad agire in maniera opposta, sottoponendo le persone a riunioni ed interferenze continuative. Con lo smart working il modello di management si deve orientare, innanzitutto nel creare una cultura basata sulla fiducia. I collaboratori devono essere considerati persone mature in grado di fare scelte adeguate e responsabili, se opportunatamente formati e con le opportune indicazioni (F. Frei, A. Morris 2020). Un secondo elemento è legato alla gestione per risultati e obiettivi. Questo richiede un lavoro di pianificazione e monitoraggio costante ma parte dalla condivisione delle attese derivanti dal lavoro di ognuno. Chiarire le aspettative e definire le modalità di lavoro più utili e consone è un’attività che aiuta a sviluppare e rafforzare il rapporto tra il manager ed il suo team. Stabilire le nuove regole, insieme alle proprie persone, crea coinvolgimento, dimostra orientamento all’ascolto e permette al manager di farsi sentire vicino, nonostante la distanza. Non può mancare, in tutto questo, e sicuramente più di prima, un riconoscimento dell’impegno e degli sforzi, sia a livello individuale che collettivo. A volte è sufficiente un riscontro positivo in una riunione per far arrivare ai collaboratori il proprio apprezzamento e far sentir loro la nostra stima e vicinanza (anche se distanti).

Di fronte alle difficoltà commerciali e finanziarie, e alle preoccupazioni in termini sanitari che il Covid – nella gran parte delle aziende – sta creando o aggravando, alcuni imprenditori e manager tendono oggi a perdere la pazienza (più spesso del solito…), sfogandosi apertamente con i collaboratori ed esprimendo sentimenti di rabbia o di frustrazione. Se sul piano umano questo è certamente comprensibile, dal punto di vista della leadership aziendale è sicuramente sbagliato e può contribuire a deteriorare i rapporti di lavoro, la fiducia e il clima complessivo che si respira in un’azienda. Quanto sono importanti la solidità psicologica e la capacità di contenere aggressività e rabbia per chi ha ruoli manageriali?

Oggi viene alla ribalta un tema di per sé non più giovanissimo: l’Intelligenza Emotiva. A parlare di Intelligenza Emotiva furono gli psicologi Peter Salovey e John D. Mayer, all’inizio degli anni ’90. Questo concetto poi fu ripreso, leggermente modificato e reso popolare da Daniel Goleman con il suo libro Emotional Intelligence (1995), per essere successivamente ulteriormente sviluppato da altri autorevoli ricercatori (David McClelland, Annie McKee e Richard Boyatzis).

Qual è il significato di questo concetto e come può aiutare chi ha ruoli manageriali in un periodo di difficoltà e forte incertezza?

Possiamo semplificare il concetto di Intelligenza Emotiva in 2 punti: a) la capacità di essere consapevoli, comprendere e gestire il proprio stato emotivo e b) la capacità di relazionarsi con gli altri riconoscendone le emozioni.

Se la gestione delle emozioni proprie e altrui è importante anche nei periodi più floridi e positivi, diventa elemento determinante durante periodi di crisi, di tensione, di confusione, paura e difficoltà.

Da un lato le frustrazioni, le pressioni e le incertezze dei manager, dall’altra le paure, il senso di smarrimento e le ansie dei collaboratori, due forze che, mischiate, rischiano di dar vita ad un vero e proprio uragano organizzativo destabilizzante.

Ed è in questo contesto che lo sviluppo dell’Intelligenza Emotiva, come competenza distintiva dei manager può aiutare ad evitare effetti devastanti e può venire incontro alle esigenze dei collaboratori.

Innanzitutto, ci vuole una certa dose di autostima e di sano ottimismo. Il manager che sa di poter ricorrere alle proprie capacità, di poterne rafforzare e sviluppare altre, riesce a mantenere quella calma e a dare quel messaggio di positività che porta le sue persone a credere in lui e ad intravedere la possibilità di risolvere la situazione. Ma l’ottimismo non deve essere esageratamente ostentato perché rischia di far perdere credibilità.

Inoltre, è importante l’empatia, quella capacità imperfetta (ci si può avvicinare ma ci sarà sempre un margine di personalizzazione) di mettersi nei panni degli altri. Vale a dire, cercare di capire come le altre persone stanno vivendo quella situazione, in che condizioni si trovano, quali sono i loro bisogni (rassicurazione, avere riferimenti, sapersi organizzare, sviluppare nuove competenze …). Il manager empatico è rivolto all’ascolto dei collaboratori, e in questo modo essi sanno di essere considerati importanti. Una recente ricerca di Adecco (Ottobre 2020) ha messo in evidenza che il 74% dei collaboratori si aspetta che i propri manager adottino un comportamento empatico e dimostrino un atteggiamento di supporto, ma anche che il 54% dei manager richiede supporto per soddisfare tali aspettative. C’è una certa consapevolezza che sia una competenza che richiede un impegno particolare per essere sviluppata.

Vi è poi un altro aspetto da considerare, che possiamo trovare nel concetto di “deliberate calm” trattato dall’autore Helio Fred Garcia, nel suo articolo “Effective leadership response to crisis” (2006). La “calma ponderata” è la capacità di riuscire, mentalmente ed emotivamente, a distaccarsi da una situazione difficile per potersi concentrare su come poterla gestire. Non farsi quindi sopraffare dalle emozioni emergenti che rischiano di offuscare le capacità cognitive, e mantenere quella lucidità necessaria per concentrarsi sulle modalità risolutive.

Un altro aspetto da non trascurare, che può essere di supporto ai manager per gestire questi momenti di particolare carica emotiva, è parlare delle proprie preoccupazioni, confrontarsi con altri, non pensare di essere i soli che si trovano in situazioni per le quali non hanno risposte immediate. Momenti di confronto e di condivisione tra manager possono essere occasioni per delineare approcci comuni e supportarsi a vicenda.

Oggi inevitabilmente – causa Covid – vanno aumentando nelle aziende le forme di comunicazione a distanza, perché non tutti i colleghi sono negli uffici nelle stesse giornate. Quali sono gli errori da evitare nella comunicazione telefonica, via web e attraverso piattaforme digitali? Ci sono caratteristiche proprie di queste modalità comunicative che pongono problemi specifici dal punto di vista della leadership aziendale?

Come dice un assioma della comunicazione: “non è possibile non comunicare”: ogni volta che ci troviamo in una situazione in cui c’è un possibile soggetto ricevente, volenti o nolenti, comunichiamo qualcosa.

Gli strumenti di comunicazione che stiamo usando maggiormente, e in alcuni casi in forma esclusiva, ci privano del rapporto diretto con gli interlocutori.

Molti di noi si sono “convertiti” a queste forme di comunicazione, senza una adeguata preparazione e spesso vengono compiuti degli errori facilmente evitabili.

Abbiamo recentemente scoperto cosa voglia dire iperconnessione. Ormai non ci sono limiti, di tempo e spazio. Siamo, ancor più di quanto non lo fossimo prima, sempre collegabili e reperibili. Questo dovrebbe risvegliare in noi l’esigenza di definire delle nuove regole di comunicazione, sia per essere più efficaci, sia per evitarne l’abuso.

Nelle comunicazioni telefoniche o attraverso sistemi di videoconferenza, che riempiono inesorabilmente le nostre giornate, si possono compiere alcuni errori; di seguito i più comuni:

  1. Non prepararsi adeguatamente: una conversazione telefonica o una riunione virtuale richiedono forse più preparazione di un momento in presenza. È fondamentale avere tutto ciò che serve sottomano e velocemente disponibile, e per questo preparare ogni cosa in anticipo ci può evitare momenti di vuoto, di attesa, dove rischiamo di perdere l’interlocutore;
  2. Connettersi quando non si è in un contesto adeguato: non c’è nulla di più fastidioso di sentire rumori di fondo o vedere il viso dell’interlocutore che continua a muoversi (per non parlare di quando il volto scompare e si ha la sensazione di vivere un momento intenso sulle montagne russe);
  3. Fare altro: la tentazione è grande, e mentre siamo collegati non resistiamo a non guardare le mail, magari rispondendo a qualche messaggio, e intanto – dall’altra parte – eccheggia il rumore della tastiera o l’interlocutore ci vede “visibilmente” distratti;
  4. Usare il vivavoce: semplifica la vita per non tenere le mani occupate, ma crea un effetto “tunnel” nell’audio dell’interlocutore, meglio usare gli auricolari;
  5. Dimenticarsi dei fusi orari: la velocità con la quale oggi decidiamo di fare una riunione virtuale o coinvolgere qualcuno in una telefonata, può portarci a non chiederci, soprattutto quando ci si relaziona con persone che lavorano in aree geografiche differenti, qual è il fuso orario degli interlocutori, rischiando di buttar giù dal letto qualcuno all’alba.

Per non parlare delle comunicazioni scritte, mail e messaggerie varie. Oggi sembra essere premiante la velocità di risposta: niente di più sbagliato. Le mail ed i messaggi vanno letti bene prima di pensare di rispondere. Non solo, la risposta merita un’attenzione particolare, non va buttata lì d’impulso e di getto, come troppo frequentemente ci troviamo a fare. Una volta battuto il tasto “invio” è troppo tardi per recuperare.

Da docente universitaria e da insegnante di persone che andranno in futuro a rappresentare le nuove figure manageriali nelle aziende, cosa pensi dell’attuale situazione della didattica in ambito accademico? Come sta andando l’insegnamento a distanza? Quali problemi sta ponendo?

La questione della didattica è una questione molto controversa.

Non credo che la criticità sia lo strumento, di per sé, quanto l’alea di incertezza che rende disorientati studenti e docenti.

Per quello che è la mia esperienza, basata sul mio diretto osservatorio, pensando ai nostri studenti universitari e ai manager, o aspiranti tali, che partecipano alle nostre iniziative della Business School, posso dire che l’insegnamento a distanza, tutto sommato, non è da “bannare”.

Ci sono cose che funzionano meglio di altre, ci sono aspetti che non possono sicuramente essere compensati.

Cosa funziona? Per evidenziare cosa funziona, è opportuno fare una premessa: la connessione deve essere buona. Tutto è basato su questo, ovviamente (ma mai dare tutto per scontato!). Semplice ma non banale. Se la connessione è instabile e il segnale è scarso, passeremo gran parte del tempo a ripetere le cose, a cercare di decifrare il linguaggio in codice che a malapena captiamo. No, nulla si può fare con connessioni inappropriate. Quindi, partiamo dall’assunto di base che la connessione ci sia.

Con i vari software a disposizione si può simulare una tradizionale lezione. Si scrive alla lavagna, si possono coinvolgere gli studenti, c’è una buona relazione (non è che lo studente se è in aula interviene di più rispetto a quando è a distanza … è un mito da sfatare). Si possono attivare lavori di sottogruppo per poi far fare presentazioni dagli studenti, insomma, non mancano le possibilità.

La formazione a distanza poi può assumere vesti differenti, dall’offline, usufruibile in qualsiasi momento a seconda delle disponibilità dello studente, oppure online, che richiede la presenza in uno specifico momento. Può richiedere differenti gradi di coinvolgimento del partecipante, dall’essere puro spettatore, ad essere protagonista (pensiamo a dei business game o simulazioni).

La questione principale è la relazione, quella vera, quella che si crea in un momento di pausa. A distanza ci si lascia e ci si ritrova dopo una decina di minuti, se sei in aula, è l’occasione per scambiare due parole in più, è l’occasione per lo studente di avvicinarsi e magari chiederti dei chiarimenti.

Questo manca.

A maggior ragione quando si parla di formazione manageriale, dove la creazione del network è uno dei bisogni fondamentali che si vuole soddisfare.

Anche in questo caso viene a mancare l’elemento più fisico della relazione che, sono convinta, nessuno strumento, ad oggi, è in grado di compensare.

Sicuramente per i docenti è faticoso. Bisogna reinventarsi e mettersi in discussione, trovare nuovi approcci e sempre, sottolineo sempre, preoccuparsi di chi sta dall’altra parte. È molto faticoso anche per loro. Bisogna coinvolgere maggiormente i partecipanti, fare qualche pausa in più rispetto al solito, far capire che non si è una macchina che una volta premuto start non si ferma se non quando ha finito il suo “compitino”.

In una situazione di crisi come quella che stiamo attraversando è importante mantenere l’ottimismo per il futuro, in vista del mondo post-Covid che a un certo punto arriverà. Quali insegnamenti possiamo trarre da questa emergenza? Il Covid, in prospettiva, potrà contribuire in qualche modo a migliorare la vita nelle aziende?

Come dice un proverbio: non tutti i mali vengono per nuocere. A volte è necessario subire un impatto di forze esterne per farci cambiare prospettiva ed uscire da modelli e schemi mentali che ci portano a vedere e a considerare le cose sempre nello stesso modo (Johnson-Laird, 1992).

Come in tutti i cambiamenti, alcuni aspetti, alcuni comportamenti, ritorneranno quelli di prima, perché le novità non sono state pienamente interiorizzate, accettate e volute; altri aspetti invece, assumeranno una nuova veste, una nuova forma.

In particolare, abbiamo sicuramente imparato che le organizzazioni hanno dei confini più ampi. Il lavoro può essere svolto in posti differenti, svolto in maniera flessibile, anche per chi non aveva mai contemplato una modalità diversa che non fosse quella della presenza costante. Anzi, vi sono ricerche che, negli Stati Uniti, hanno messo in luce che il 60% circa dei lavoratori sarebbe disposto a lasciare l’azienda in cui lavora per una che offrisse la possibilità di lavorare a distanza (Gallup 2020).

La parola chiave diventa flessibilità, fluidità.  Abbiamo capito che “si può fare”.

Di conseguenza, quello che cambierà – molto probabilmente – sarà la strutturazione degli spazi negli uffici. Meno postazioni “fisse”, più spazi per riunioni, momenti di confronto e di riflessione. Più spazi per socializzare (sempre nel rispetto delle regole del distanziamento, fino a quando esisteranno, che non devono però impedire lo scambio e la relazione tra le persone).

Un altro elemento che rimarrà, e sicuramente verrà potenziato, è lo sviluppo tecnologico che ha aperto ed aprirà ulteriori nuovi confini. Lo slancio iniziato, per molti, come risposta a delle esigenze contingenti, diventerà opportunità di sviluppi ed applicazioni future. Dati di Mckinsey hanno messo in evidenza che, nel primo periodo di pandemia, in 8 settimane, è stato fatto un salto di 5 anni nell’adozione di sistemi e strumenti digitali. Basta solo farsi venire idee su come potenziare i benefici derivanti dalle nuove tecnologie, ma il percorso è ormai ben avviato.

Il lavoro a distanza, infine, ha portato i manager a doversi fidare dei loro collaboratori, scoprendo che avrebbero potuto farlo anche prima. Questo sicuramente influisce e influirà sui rapporti con le persone, che sono state messe nelle condizioni di doversi muovere con maggiore autonomia, di dover ricorrere alle proprie potenzialità, mettendo in luce il loro valore.



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