Coronavirus e settore tessile. Due domande a P. Torello-Viera

Intervista a P. Torello-Viera

A cura di Luigi Torriani

Coronavirus e settore tessile. Due domande a P. Torello-Viera

PAOLO TORELLO-VIERA: Dirigente e manager di lungo corso nel settore tessile, Paolo Torello-Viera è nato a Biella e vive a New York. È stato vice-presidente in Ermenegildo Zegna, direttore operativo (COO) in Brioni, direttore operativo (COO) alla Samuelsohn, CEO di BVM Usa (Les Copains – Gian Battista Valli), CEO per le Americhe di Pal Zileri e CEO del Lanificio Fratelli Cerruti.

Quale sarà secondo lei l’impatto dell’emergenza Coronavirus sul settore tessile, e che cosa chiede come manager alla politica, a livello di singole nazioni e a livello sovranazionale?

L’impatto è e sarà mondiale, riguarderà tutti i principali settori dell’economia, toccherà pesantemente tutte le più importanti nazioni, ovunque, e si delineerà in due fasi: la prima, che definirei “emotiva”, e la seconda, che avrà che fare con gli aspetti economici e di business, una volta che il pericolo per la vita e per la salute delle persone sarà passato. Ora siamo nel pieno dell’emergenza e ci troviamo in questa prima fase del fenomeno Coronavirus, un frangente nel quale sono in primo piano l’emergenza sanitaria e le nostre emozioni e paure. In questo momento la priorità è far fronte a una situazione sanitaria drammatica, con numeri preoccupanti in Italia, a New York – dove vivo, e in molte altre aree del mondo.

Trascorso questo periodo, entreremo in una seconda fase, nella quale non sarà più così a rischio la nostra salute, ma sarà a rischio la sopravvivenza delle aziende. L’impatto economico sul settore tessile sarà devastante, e i nodi verranno al pettine in maniera inequivocabile per quanto riguarda le collezioni della primavera-estate 2021. Per l’autunno-inverno 2020 la gran parte delle vendite sono già state fatte, e l’impatto del Coronavirus sarà limitato. Ma il problema è un altro: adesso i negozi di abbigliamento sono chiusi, non si sta vendendo nulla al dettaglio e probabilmente sarà così ancora per diverse settimane, per cui il 2020 sostanzialmente possiamo già archiviarlo così, i magazzini saranno pieni di merce invenduta, e questa stessa merce verrà riproposta dai negozianti per la primavera-estate 2021, eliminando di fatto un’intera nuova collezione che sarebbe stata in arrivo a breve.

Certamente i governi dovranno in qualche modo intervenire – dal punto di vista economico, burocratico e fiscale – per aiutare le aziende a ripartire. Non amo tuttavia la retorica di chi rimprovera alla politica tutti i mali e chiede sempre e solo alla politica le soluzioni. Preferisco la celebre frase di John Fitzgerald Kennedy: “non chiedetevi che cosa il vostro Paese possa fare per voi, chiedetevi che cosa voi potete fare per il vostro Paese”. Che cosa stanno facendo per il proprio Paese quelle persone che anziché stare a casa per limitare i contagi vanno in giro per ore a piedi o in bicicletta? Quanti – tra coloro che ora si lamentano – hanno rispettato le leggi e le norme di prudenza nelle scorse settimane?

È chiaro che dobbiamo contribuire tutti alla battaglia che stiamo combattendo, e dobbiamo farlo anche e innanzitutto nelle fabbriche. La frase di Kennedy che ho citato può essere perfettamente adattata al contesto aziendale, e spesso mi è capitato di riprenderla in questi termini di fronte ai miei dipendenti e collaboratori: che cosa possiamo fare per l’azienda nella quale lavoriamo? Avendo avuto, quando operavo come CEO del Lanificio Cerruti, dei rapporti sempre costruttivi con le organizzazioni sindacali italiane, sono rimasto molto deluso nell’apprendere che i sindacati stanno promuovendo degli scioperi in questi giorni in Italia. È questo il momento per fare degli scioperi? Volete fare degli scioperi adesso per poi farne altri quando le persone – se l’economia non si riprende – perderanno il lavoro? Che senso ha? È legittimo avere paura, è umanamente comprensibile, ma non possiamo bloccare tutto. Il governo italiano è già intervenuto drasticamente bloccando interi settori dell’industria, e consentendo – se e solo se è possibile il rispetto di tutte le nuove e dettagliate norme di sicurezza – la continuità produttiva per i settori essenziali e strategici. È giusto così, perché al momento la priorità è l’emergenza sanitaria, ma chi può stare aperto – perché è attivo in ambiti di produzione ritenuti dallo Stato fondamentali e imprescindibili – deve poter di fatto lavorare, contando sulla collaborazione e sullo spirito di sacrificio di tutti, altrimenti non ce la faremo. So benissimo che non è facile, ma dobbiamo remare nella stessa direzione per uscire dalla tempesta. “È come se ci trovassimo a guidare nella nebbia”, mi diceva l’altro giorno un amico, aggiungendo: “dobbiamo quindi diminuire la velocità, ma non possiamo fermarci o bloccarci in mezzo alla strada”. 

E facendo queste considerazioni, peraltro, penso a quanto senso civico stiano dimostrando medici, infermieri e professionisti del settore sanitario in queste settimane. Di fronte al rischio di ammalarsi e di morire stanno continuando a fare il loro dovere, dando un grande esempio a tutti i cittadini. Io credo che il prossimo Nobel per la Pace andrebbe assegnato al personale sanitario che in tutto il mondo si è trovato a fronteggiare a testa alta questa emergenza epocale.

E mi lasci concludere con una considerazione: questo momento così difficile può essere l’occasione per ripensare la scala delle nostre priorità esistenziali, per fermarsi a riflettere su quali sono i valori più importanti nella vita, per capire davvero quanto conta la famiglia, per riconoscere i veri amici, e per dare il giusto peso a quelle cose che prima finivamo – sommersi dal lavoro – per trascurare ingiustamente. Si parla tanto oggi di “social distancing”, ma l’espressione non mi piace. Preferisco parlare di “physical distancing”, perché mantenere una distanza fisica per evitare il contagio non significa avere una distanza sociale, di affetti e di sentimenti. Anzi: la distanza fisica spesso permette di capire quali sono gli affetti più autentici. Sta succedendo a me in questi giorni, e credo possa accadere per tutti.

L’emergenza Coronavirus ha costretto le aziende ad adottare in tempi rapidissimi lo smart working per i dipendenti. Può essere un’opportunità anche per il futuro? 

Personalmente sono da tempo un grande fautore dello smart working, e credo che per molte attività sia possibile dimostrare grande qualità nel lavoro anche operando da casa.  Mi è capitato, come CEO, di avere alle mie dipendenze un CFO che lavorava da casa per tre giorni alla settimana, e la collaborazione procedeva ottimamente. È chiaro però che lo smart working ha senso soltanto se ci sono delle risorse hardware e software adeguate, altrimenti può creare problemi di comunicazione e di produttività. Da questo punto di vista penso che l’emergenza Coronavirus possa far capire in maniera emblematica agli imprenditori che spendere adeguatamente sul lato informatico non è un costo ma un investimento necessario e imprescindibile.



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